Esenzione IMU per immobili occupati abusivamente: importante sentenza della Corte Costituzionale

Le occupazioni abusive costituiscono un problema di grande rilevanza per molti proprietari di immobili. Una recente pronuncia della Corte Costituzionale (Sentenza n. 60 del18 aprile 2024), tuttavia, rappresenta una buona notizia per i proprietari, stabilendo in determinate circostanze l’esenzione dall’obbligo di pagamento dell’imposta municipale unica sugli immobili e offrendo, dunque, una maggiore tutela.

La gestione di un immobile di proprietà può rivelarsi complessa e problematica, specialmente in caso di occupazioni abusive. Oltre al danno derivante dall’utilizzo illegittimo della proprietà da parte di terzi, si aggiunge spesso l’onere del pagamento dell’IMU. Le lunghe tempistiche processuali e le difficoltà nelle procedure di sgombero possono comportare ingenti costi. Finora, l’obbligo di pagamento dell’IMU gravava su tutti i proprietari, indipendentemente dall’effettiva disponibilità della proprietà e anche qualora essa fosse abusivamente occupata.

La recente pronuncia introduce un’importante deroga all’obbligo di pagamento dell’IMU. La Corte Costituzionale ha infatti stabilito che i proprietari di immobili occupati debbano essere esentati dal pagamento dell’IMU per motivi costituzionali, a condizione che l’occupazione abusiva sia stata denunciata tempestivamente e formalmente alle autorità competenti. In buona sostanza, ciò significa che i proprietari che intraprendono azioni legali volte a porre fine all’occupazione abusiva non saranno soggetti a tassazione sull’immobile occupato.

Per poter beneficiare dell’esenzione dal pagamento dell’IMU sull’immobile oggetto di occupazione abusiva, devono verificarsi i seguenti requisiti fondamentali:

  • Tempestiva denuncia dell’occupazione alle autorità competenti;
  • Prova degli sforzi messi in atto per porre fine all’occupazione, p.es.  l’avvio di una procedura di sgombero o l’impiego di un servizio di sicurezza.

La pronuncia della Corte Costituzionale rappresenta un passo significativo nella tutela dei diritti dei proprietari, prevenendo oneri finanziari ingiustificati e rafforzando il diritto alla proprietà.

Per chi è vittima di un’occupazione abusiva, è assolutamente consigliabile rivolgersi ad un avvocato specializzato. Una consulenza legale adeguata può agevolare uno sgombero tempestivo dell’immobile ed evitare ulteriori svantaggi economici.

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Il valore del conferimento in denaro tra coniugi sposati in regime di separazione dei beni: è criterio sufficiente per determinare la sussistenza di una società di fatto tra marito e moglie?

Nella relazione tra coniugi può capitare che il marito o la moglie effettuino a favore dell’altro coniuge ovvero della sua azienda dei versamenti in denaro ovvero dei finanziamenti. Tuttavia, tale circostanza potrebbe dare adito a spiacevoli conseguenze in termini di responsabilità di alcuno dei coniugi qualora le suddette operazioni economiche fossero inquadrate come inserite in un contesto societario ove il coniuge “finanziatore” potesse essere qualificato come “socio di fatto” dell’azienda della propria moglie o del proprio marito, risultando dunque un unico soggetto di diritto.

Al fine di verificare la sussistenza di tale circostanza e, quindi, l’esistenza di una società di fatto tra coniugi, debbono sussistere alcuni requisiti ovverossia un elemento oggettivo, rappresentato dal conferimento di beni o servizi, con la formazione di un fondo comune, e di un elemento soggettivo, costituito dalla comune intenzione dei contraenti di vincolarsi e di collaborare per conseguire risultati patrimoniali comuni nell’esercizio collettivo di un’attività imprenditoriale. Tale comune intenzione costituisce il contratto sociale, senza del quale la società, non può esistere.

Stante la definizione di cui sopra, si deve procedere ad analizzare se effettivamente il conferimento di denaro da parte della moglie o del marito (elemento oggettivo) e la ratio con cui si è effettuata l’operazione economica (elemento soggettivo) siano elementi sufficienti ad indurre il Giudice a ritenere che tra i coniugi sposati in regime di separazione dei beni sussista una società di fatto.

A tal riguardo, ci si riporta ad una pronuncia della Cassazione che specifica ulteriormente il concetto di società di fatto per la cui esistenza “è sufficiente la dimostrazione di un comportamento, da parte dei soci, tale da ingenerare nei terzi il convincimento giustificato ed incolpevole che quelli agissero come soci, atteso che, nonostante l’inesistenza dell’ente, per il principio dell’apparenza del diritto, il quale tutela la buona fede dei terzi, coloro che si comportino esteriormente come soci vengono ad assumere in solido obbligazioni come se la società esistesse”, specificando però che in caso di consanguinei “la prova della esteriorizzazione del vincolo deve essere particolarmente rigorosa, occorrendo che essa si basi su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l’intervento del familiare possa essere motivato dalla “affectio familiaris”, sicché, di regola, non è di per sé sufficiente la dimostrazione di finanziamenti e/o pagamenti ai creditori dell’impresa da parte del congiunto dell’imprenditore, costituendo questi atti neutri, spiegabili anche in chiave di solidarietà familiare” (Cass. civ. n. 16829/2013).

Dalla pronuncia riportata, si evince che un semplice finanziamento o un intervento del familiare non possa di per sé indurre a ritenere la sussistenza di una società di fatto tra congiunti ma è necessaria l’esteriorizzazione, cioè l’effettiva manifestazione esterna, del vincolo.

Con riferimento al concetto di “esternalizzazione”, cioè alla circostanza per cui il vincolo sociale sia conoscibile all’esterno, bisogna far riferimento ad alcuni indicatori afferenti alla società di fatto determinati dalla giurisprudenza. Secondo quest’ultima, affinché sussista una società di fatto è necessario che emergano nei confronti dei terzi:

– La contemplatio domini: non è necessaria la spendita del nome degli altri soci, essendo sufficiente che il comportamento di chi agisce per la società siano tali da rendere palese al terzo sia il vincolo sociale sia la riferibilità del negozio alla società;

– Finanziamenti, fideiussioni e altre garanzie quando, in concorso con gli altri elementi strutturali del rapporto di società, attuano una sistematica opera a sostegno all’impresa. Con riferimento alla sistematicità degli interventi, non bisogna far riferimento ad un criterio solamente quantitativo ben potendo essere rilevante un finanziamento sotto il profilo qualitativo ad es. finanziamenti effettuati in momenti decisivi per lo sviluppo dell’impresa o per evitarne la crisi;

– Esistenza di un fondo comune e presenza dell’affectio societatis che emerge dal vincolo di cooperazione instaurato per un interesse comune nonché dallo scopo della ripartizione degli utili. L’affectio societatis può essere desumibile anche dalla mancanza di retribuzione;

– In particolare, con riferimento alla società costituita tra i coniugi, per poter affermare l’esistenza di una società di fatto tra coniugi occorrono elementi sistematici ed univoci dai quali si possa desumere l’effettiva intenzione di gestire in comune l’attività. Inoltre, tali elementi concludenti debbono essere rigorosamente provati, nonché idonei ad escludere che l’eventuale partecipazione all’attività aziendale del coniuge sia motivata esclusivamente dall’affectio maritalis nonché a delineare in modo inequivoco la compartecipazione all’attività commerciale.

 

In conclusione, un coniuge può essere qualificato come “socio di fatto” dell’altro ed incorrere in responsabilità in relazione alle vicende che coinvolgano la società del partner nel caso in cui sussista un effettivo conferimento ovvero finanziamento al coniuge o alla sua società, nel caso in cui vi sia una volontà di partecipare alla società e l’operazione economica effettuata ne è una prova e, inoltre, deve sussistere la percezione – da parte dei terzi – che marito e moglie agiscano “in società” in modo sistematico ed univoco.

La misura della provvigione del mediatore in assenza di accordo e il criterio dell’equità

Molte delle controversie che sorgono nell’ambito della compravendita immobiliare riguardano la provvigione spettante al mediatore nonché la misura della stessa. Sul punto, il codice civile fornisce definizioni e principi che in combinato disposto con le disposizioni di legge e l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza, forniscono una soluzione alle vertenze in tema di misura della provvigione.

Come noto, il mediatore è quel soggetto che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare. Come già trattato in precedenza, il diritto alla provvigione del mediatore nasce per il solo fatto di aver messo in contatto le parti per la conclusione dell’affare che viene individuata nella conclusione di un contratto (anche preliminare) (vedasi anche Provvigione per il mediatore senza conferimento di incarico?).

Qualora la controversia non verta tanto sull’an, poiché l’affare tra le parti è stato concluso, ma sul quantum, ovverossia sulla misura della provvigione, è necessario innanzitutto prendere in considerazione il dettato dell’art. 1755 c.c. e verificare se vi sia accordo tra le parti in relazione alla provvigione.

Nel caso in cui le parti (tra loro e con il mediatore) non abbiano precedentemente pattuito la misura della provvigione, sempre ai sensi dell’art. 1755 c.c. si deve far riferimento ad altri criteri sussidiari. Essi sono le tariffe professionali e gli usi. In mancanza di questi elementi, la provvigione verrà invece determinata dal Giudice secondo il criterio dell’equità. Tuttavia, prima di fare ricorso al criterio equitativo, bisogna tener conto del dettato della L. 39/1989 concernente la disciplina della professione del mediatore, ad oggi ancora in vigore.

Essa all’art. 6 prevede che “la misura delle provvigioni e la proporzione in cui questa deve gravare su ciascuna delle parti, in mancanza di patto, sono determinate dalle giunte camerali, sentito il parere della commissione provinciale di cui all’art. 7 e tenendo conto degli usi locali”. All’uopo si precisa che le commissioni provinciali sono commissioni istituite in seno a ciascuna camera di commercio che si occupa delle iscrizioni nel ruolo e alla tenuta del ruolo stesso.

Ciò è supportato anche dalla giurisprudenza di merito che qualifica la norma testé rammentata come integrativa della precitata disposizione del c.p.c. In tal senso si è recentemente pronunciato un Tribunale, precisando che: “Accertata l’attività di mediazione, in base all’art. 1755 del c.c., il giudice determina la misura della provvigione, e la proporzione in cui questa deve gravare su ciascuna delle parti, in mancanza di patto, tariffe personali o di usi, secondo equità. Al riguardo, l’art. 6 cpv. L. 3 febbraio 1989, n.39 recante la modifica e le integrazioni alla L. n. 253 del 1958, concernente la disciplina di professione del mediatore, dispone che in mancanza di patto, la misura e la proporzione predette sono determinate dalle giunte camerali, sentito il parere della commissione provinciale e tenendo conto degli usi locali. Tale norma, non ha nonostante detta integrazione resta sostanzialmente invariata” (Trib. Parma 28/02/2018, n.311). La natura integrativa della norma viene altresì confermata dalla dottrina (G. Cian).

Da quanto sopra esposto si evince che dati i criteri delle tariffe professionali e gli usi, il criterio dell’equità assuma un carattere del tutto residuale.

In particolare, la giurisprudenza precisa che “atteso il carattere sussidiario dei criteri previsti in ordine successivo dall’art. 1755, secondo comma c.c., questa deve essere determinata dal giudice secondo equità, se le parti non ne abbiano stabilito la misura e se non è provata l’esistenza di tariffe professionali e di usi locali” (Cass. civ. sent. n.13656/2012) ed ancora “la misura della provvigione dovuta al mediatore è determinata dal giudice solo in assenza di specifica previsione delle parti, secondo le fonti di integrazione previste in ordine successivo dall’art. 1755, comma 2, c.c.; di conseguenza, la mancata prova degli usi normativi non comporta, per ciò solo, il rigetto della domanda, dovendosi ricorrere al criterio subordinato dell’equità” (Cass. civ. sent. n.11127/2022).

Di conseguenza, il criterio dell’equità sarà utilizzatro dal Giudice per determinare l’ammontare della provvigione solamente come extrema ratio. Peraltro, al criterio dell’equità deve essere interpretato nel senso civilistico del termine. La dottrina afferma che questo è un criterio non stabilito dalla legge ma rimesso al senso di equilibrio del Giudice sulla scorta del quale il giudicante, nel decidere una controversia, è chiamato a far ricorso a criteri di convenienza e di comparazione degli interessi delle parti. Proprio per questo, l’art. 1755 c.c. non fornisce evidenza dei vari fattori che devono essere tenuti in conto in una decisione in via equitativa.

Tuttavia, come sopra già precisato, si può ritenere che una decisione secondo equità possa essere assunta tenuto conto della convenienza e della comparazione degli interessi delle parti. Nel caso della mediazione, alcuni degli interessi e/o fattori potrebbero essere costituiti da: valore dell’operazione, tipologia e quantità di attività svolta dal mediatore, nesso causale tra questa e la conclusione dell’operazione economica in esame.

La validità della clausola di proroga di giurisdizione nelle Condizioni Generali del contratto

Le vendite internazionali intraeuropee, come ben noto, sono spesso regolate non solo dai regolamenti europei e norme internazionali ma, più di frequente, dalle Condizioni Generali di natura pattizia stabilite tra le parti. Tale strumento viene utilizzato altresì per ovviare ad uno dei problemi che molto spesso si presenta nella vendita internazionale, che consiste nel determinare la giurisdizione cui adire nel caso di controversie tra le parti.

Pertanto, in ambito europeo, i partner commerciali spesso inseriscono nelle Condizioni Generali la cd. clausola di proroga della giurisdizione per cui si stabilisce che le eventuali controversie insorgenti tra le parti siano decise dal Giudice di uno Stato Membro piuttosto che di un altro.

Trattandosi molto spesso di vendite a distanza, ovvero concluse mediante l’utilizzo di mezzi telematici, è emerso un profilo di criticità con riferimento alla forma che tali clausole, inserite all’interno delle Condizioni Generali, debbono rivestire al fine di comprovare la loro accettazione e validità tra le parti.

Sul punto, l’art. 23 del cd. Regolamento Bruxelles I peraltro, pur sancendo la necessità della forma scritta per gli accordi che contengano la clausola afferente alla proroga della competenza, prevede che essa ricomprenda “qualsiasi comunicazione con mezzi elettronici che permetta una registrazione durevole dell’accordo attributivo di competenza”.

Inoltre, l’art 25 del Reg. UE n. 1215/2012 dispone che la proroga di competenza è ammessa in una forma ovvero da un uso “che le parti conoscevano o avrebbero dovuto conoscere e che, in tale ambito, è ampiamente conosciuto e regolarmente rispettato dalle parti di contratti dello stesso tipo nel settore commerciale considerato”.

Ciò posto, si evidenzia come la Suprema Corte, Sezioni Unite, n. 21622/2017, abbia dato applicazione alle precitate disposizioni concernente anche la “forma” delle Condizioni Generali del contratto concluso tra due partner commerciali, nel caso di due società, l’una italiana e l’altra tedesca, che avevano stipulato un contratto mediante scambio di messaggi di posta elettronica e per l’inadempimento del quale la società italiana aveva convenuto avanti il giudice domestico la controparte tedesca.

Quest’ultima eccepiva il difetto di giurisdizione in forza della clausola di proroga della giurisdizione inserita nelle sue Condizioni Generali conosciute ed accettate dalle parti, in quanto la società tedesca richiamava nel proprio ordine di acquisto le proprie Condizioni generali, le quali erano poi fruibili per intero sul sito di detta società sia in lingua tedesca sia in lingua inglese.

Sulla scorta di tali evidenze, la Cassazione richiamava la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ove si confermava che nel caso in cui la clausola di proroga della giurisdizione sia contenuta in Condizioni Generali di contratto disponibili mediante accesso al sito internet, si è in presenza di “una comunicazione elettronica che per mette di registrare durevolmente tale clausola, ai sensi di tale disposizione, allorché consente di stampare e salvare il testo di dette condizioni prima della conclusione del contratto” (C 322/14).

In conclusione, le Sezioni Unite ribadivano quanto già espresso dai regolamenti europei nonché dalla giurisprudenza per la Corte di Giustizia ribadendo che, al fine della validità tra partner commerciali della clausola di proroga della giurisdizione è necessario e sufficiente che la stessa, seppure in forma scritta, possa essere contenuta anche nelle Condizioni Generali e sia reperibile tramite collegamenti ipertestuali che conducano a comunicazioni elettroniche permanenti, fruibili e che consentano a ciascun operatore commerciale di provvedere alla loro conservazione tramite, ad esempio, la stampa delle stesse.

Avv. Diana Tommasin

Il controllo giurisdizionale della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato.

Corte di Giustizia Europea, Grande Sezione, Sentenza 21 dicembre 2021.

Le annose questioni relative all’intersecarsi tra la giurisdizione amministrativa e quella ordinaria hanno trovato un’ulteriore declinazione nella vicenda qui in commento, ove ci si è spinti sino ad interrogarsi circa la possibilità di riconoscere competente l’organo giurisdizionale supremo nazionale  ad esercitare un controllo di tutela giurisdizionale sulle sentenze pronunciate dal supremo organo della giustizia amministrativa nazionale, per garantire la tutela giurisdizionale effettiva richiesta dal diritto dell’Unione europea.

La vicenda in esame trae origine da una procedura di gara per un appalto pubblico da aggiudicare in base al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, con previsione di una soglia di sbarramento per le offerte tecniche, in cui una delle partecipanti veniva esclusa, senza neppure essere ammessa alla fase successiva antecedente l’aggiudicazione finale, poiché la sua offerta aveva ottenuto un punteggio inferiore a quello corrispondente alla predetta soglia di sbarramento.

La partecipante esclusa ricorreva dapprima al Tribunale amministrativo regionale competente, contestando, da un lato, la propria esclusione e dall’altro, la regolarità della procedura. Il TAR adito, ritenuto che la ricorrente avesse legittimamente partecipato alla gara e ne fosse stata esclusa a causa della valutazione negativa dell’offerta, pronunciandosi dunque per l’ammissibilità del ricorso, valutava nel merito i motivi addotti, respingendoli integralmente.

In seguito, la partecipante esclusa proponeva appello innanzi al Consiglio di Stato, che, sempre muovendo dall’avvenuta esclusione, non solo respingeva nel merito l’appello proposto, ma addirittura riformava la pronuncia del TAR ritenendo l’appellante neppure legittimata a contestare nel merito gli esiti della gara. Più precisamente, l’appellante, poiché esclusa per non aver ottenuto il punteggio minimo richiesto dalla soglia di sbarramento e, non essendo stata in grado di dimostrare l’illegittimità della gara quanto all’attribuzione del predetto punteggio, di per sé era portatrice di un mero interesse di fatto, analogo a quello di qualunque altro operatore economico del settore non partecipante alla gara.

Avverso tale ultima pronuncia, la partecipante esclusa proponeva ricorso innanzi alla Corte suprema di Cassazione, lamentando la violazione del diritto ad un ricorso effettivo, di cui all’art. 1 della direttiva 89/665 e sostenendo che tale circostanza costituisse uno dei motivi inerenti alla giurisdizione ex art. 111 comma 8 Cost., per i quali è previsto il ricorso in Cassazione contro le decisioni del Consiglio di Stato.

Innanzi a tale eccezione, veniva adita la Corte di Giustizia Europea ed il giudice del rinvio interrogava l’organismo europeo proprio sulla questione relativa alla possibilità di ricorrere alla Suprema Corte nazionale per tutelare il diritto ad un ricorso effettivo, nonostante la giurisprudenza della Corte Costituzionale italiana, sent. n. 6/2018, abbia stabilito che, allo stato, non sia ammissibile equiparare un motivo vertente su una violazione del diritto dell’Unione a un motivo inerente alla giurisdizione, ai sensi dell’art. 111 comma 8 Cost.

Al fine di risolvere la questione prospettatale, la Corte di Giustizia Europea, muove innanzitutto dall’individuazione precisa della normativa europea di interesse, estrapolandone i principi rilevanti e analizzando dettagliatamente la riconducibilità del sistema di tutela giurisdizionale offerto dallo Stato membro al diritto sovranazionale, così come interpretato dalla Corte.

Per quanto concerne la normativa applicabile al caso di specie, la Corte richiama l’art. 4, paragrafo 3 3 l’art. 19, paragrafo 1 TUE, nonché l’art. 1, paragrafi 1 e 3, della direttiva 89/665, letto alla luce dell’art. 47 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea.

In merito all’art. 19 paragrafo 1 TUE, questo obbliga tutti gli Stati membri a stabilire rimedi giurisdizionali necessari per assicurare ai singoli, nei settori disciplinati dall’Unione Europea, il rispetto del loro diritto a una tutela giurisdizionale effettiva. Ciò detto, il legislatore europeo lascia ampia discrezionalità agli Stati membri circa l’individuazione dei rimedi processuali e giurisdizionali attraverso i quali attuare tale principio, salvo sempre il possibile vaglio da parte della Corte di Giustizia.

Una volta accertata, dunque, la possibilità in linea di massima degli Stati membri di poter organizzare la tutela giurisdizionale in maniera discrezionale, ivi inclusa dunque anche la previsione di un sistema di preclusioni per l’impugnazione delle decisioni del supremo organo della giustizia amministrativa da parte del supremo organo della giustizia ordinaria, la Corte analizza l’idoneità del sistema italiano a garantire la tutela del diritto ad un ricorso effettivo di matrice unionale, attraverso il vaglio della conformità ai principi di equivalenza ed effettività.

Per quanto riguarda il principio di equivalenza, la Corte rileva che l’art. 111 comma 8 Cost. limita, con le stesse modalità, la possibilità di ricorrere in Cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato, indipendentemente dal fatto che tali ricorsi siano basati sulla violazione della normativa nazionale o del diritto dell’Unione.

Con riferimento al principio di effettività, la Corte evidenzia che il diritto dell’Unione europea non obbliga gli Stati membri a istituire mezzi di ricorso ulteriori a quelli già esistenti, salvo che il sistema renda impossibile o estremamente difficile l’effettiva tutela dei diritti accordati a livello sovranazionale. Nel sistema italiano, però, la tutela giuridica dei diritti garantiti dall’Unione Europea viene comunque consentita, essendovi un giudice precostituito per legge, nonché la previsione dettagliata dei rimedi giurisdizionali esperibili.

Inoltre, un obbligo nel senso di istituire nuovi rimedi giurisdizionali non può neppure essere ravvisato nell’art. 4, paragrafo 3 TUE, ove si prescrive agli Stati membri di adottare ogni misura di carattere generale e particolare volta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle Istituzioni dell’Unione, dovendo ritenersi soddisfatto tale requisito ove i rimedi già esistenti appaiano idonei al raggiungimento di tale scopo.

Con riferimento alla norma di cui all’art. 1, paragrafo 1 della direttiva 89/665, letta alla luce dell’art. 47 della Carta, anche tale requisito pare essere del tutto soddisfatto, attesa la sussistenza di un giudice precostituito per legge al quale i singoli possono facilmente rivolgersi, non potendosi rinvenire, come già riferito, un divieto per lo Stato di prevedere limitazioni in ordine a ulteriori valutazioni sulle decisioni del supremo organo della giustizia amministrativa.

Alla luce delle motivazioni sopra esposte, dunque, la Corte di Giustizia Europea concludeva dunque per la legittimità del sistema di preclusione individuato ai sensi dell’art. 111 comma 8 Cost., così come interpretato dalla giurisprudenza nazionale, non ravvisando nessuna lesione del diritto ad un’effettiva tutela, ove impedita la possibilità di ricorrere al supremo organo della giurisdizione amministrativa avverso ad una decisione del Consiglio di Stato.

Ciò detto, la Corte opera però una valida censura alle decisioni adottate sia dal TAR che dal Consiglio di Stato, cogliendo nuovamente l’occasione per ribadire la portata del concetto di “partecipante escluso”. Ed infatti, l’esclusione ad una gara per un appalto pubblico ai sensi del diritto europeo, non può e non deve essere determinata dal semplice mancato raggiungimento di eventuali criteri richiesti, bensì  l’esclusione di un offerente è definitiva, sino a quel momento ancora sussistendo dunque un vero e proprio interesse legittimo, se l’esclusione stessa è stata comunicata ed è stata ritenuta legittima da un organo di ricorso indipendente o se non può più essere oggetto di una procedura di ricorso.

Avv. Valentina Preta

Tassazione immobili in Italia (IMU) per soggetti stranieri

La Legge di Bilancio 2022 (comma 743 dell’articolo 1 della L. num. 234/ 2021) contiene novità per alcuni soggetti non residenti nel territorio dello Stato relativamente alla imposta sugli immobili (IMU). Questa, che nella legge di bilancio dell’anno precedente era prevista come decurtata al 50 per cento, attualmente viene diminuita al 37,5 per cento.

Da un punto di vista soggettivo possono beneficiare di detta agevolazione i pensionati residenti all’estero, cioè i soggetti titolari di una pensione maturata in regime di convenzione internazionale con l’Italia. Dette persone devono essere non residenti in Italia e invece residenti in uno stato estero di assicurazione. Importante ai fini della residenza è che non è necessaria l’iscrizione all’AIRE (Anagrafe dei cittadini italiani residenti all’estero), cioè teoricamente detta agevolazione può spettare anche a soggetti pensionati di nazionalità non italiana (e per esempio tedeschi) che siano proprietari di un unico immobile in Italia. Sotto il profilo oggettivo detta agevolazione è applicabile solo ad un’unica unità immobiliare deputata ad uso abitativo. È necessario infatti, che l’immobile relativamente al quale sia dovuta l’IMU non sia affittato o concesso in comodato d’uso. Inoltre l’immobile in agevolazione deve essere posseduto in qualità di proprietari o di usufruttuari.

Giurisdizione e connessione di causa

Nelle controversie transfrontaliere, in cui sono coinvolte società con sedi in diversi paesi, le questioni di giurisdizione svolgono sempre un ruolo determinante, non solo in seno al giudizio bensì anche in una fase stragiudiziale prodromica allo stesso e nel momento della scelta del foro da adire. In altri termini l’arte del forum shopping, se ben conosciuta, agevola la soluzione delle cause.

Segnaliamo un’interessante attualissima sentenza della Corte di cassazione italiana – sezioni unite civili – num. 4294/2022. Una società di modellistica di diritto italiano incardinava un giudizio di accertamento negativo della contraffazione di diritti di privativa industriale contro due società: la Ferrari spa – di diritto italiano, con sede in Italia e la Ferrari Idea s.a., di diritto svizzero con sede a Lugano. Entrambe queste società avevano diffidato la società italiana di modellistica ad interrompere l’utilizzo del marchio “Ferrari”, inviando medesime diffide anche al rivenditore e al distributore inglese (luogo di distribuzione dei prodotti). Costellazione internazionale della vicenda che veniva sottoposta dall’attrice all’attenzione dei giudici italiani. L’eccezione di giurisdizione sollevata dalle società Ferrari veniva in I e II grado rigettata dai giudici emiliani, pertanto si arrivava in Cassazione. Anche in tale fase si confermava la giurisdizione italiana, quale correttamente adita e ciò sulla base di ragioni di connessione e di esigenze prioritarie di coerenza di giudicati. Gli ermellini hanno fondato la giurisdizione italiana sulla base dell’Art. 6 della Convezione di Lugano del 16.09.1988, che concerne proprio la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e le esecuzioni delle decisioni in materia civile e commerciale in relazione agli stati coinvolti (Italia e Svizzera), convenzione parallela alla Convenzione di Bruxelles del 27.09.1968 (sebbene entrambe superate da strumenti più aggiornati, nel caso di specie applicabili per ragioni temporali). Ai sensi di detto articolo un soggetto convenuto potrà essere citato (anche) – in caso di pluralità di convenuti – davanti al giudice nella cui circoscrizione è situato il domicilio di uno di essi. Pertanto, avendo la Ferrari spa sede legale in Italia ed essendo essa una delle due società coinvolte (invero le diffide stragiudiziali venivano inoltrate da entrambe le società Ferrari) ciò rendeva possibile l’incardinazione del giudizio in Italia, per ragioni di connessione soggettiva e oggettiva. La Cassazione si indirizzava in tal senso proprio applicando la propria giurisprudenza precedente sulla parallela Convenzione di Bruxelles, chiarendo quindi che presupposti per poter chiamare in giudizio in Italia un soggetto non residente per ragioni di connessione sono: la presenza del vincolo di connessione delle domande sin dal momento del loro esperimento e l’esistenza di un interesse ad una istruttoria ed una pronuncia giudiziale unica, che argini il rischio di decisioni incompatibili. Mentre non sarebbe necessario effettuare ulteriori verifiche sul forum shopping e cioè se le domande siano state presentate “esclusivamente allo scopo di sottrarre uno dei convenuti ai giudici dello Stato membro in cui egli ha il suo domicilio”. Prevalente pertanto è la ratio della opportunità di trattare e decidere congiuntamente cause legate da vincoli di connessione soggettiva e/o oggettiva per evitare situazioni incompatibili, qualora le cause fossero trattate separatamente. Interessante in ultimo anche l’argomentazione che ha portato ad escludere la possibilità di fondare la giurisdizione adita sulla base dell’art. 5 della citata Convenzione di Lugano, in base al luogo in cui è avvenuto l’evento dannoso. Nei motivi del ricorso per cassazione infatti, si indicava solo l’erronea applicazione dell’art. 6 della Convenzione di Lugano e non si riprendevano più le censure sotto l’altro profilo dell’Art. 5, pertanto la Cassazione ,“in presenza di una duplice ratio, di cui anche una sola inadeguatamente attaccata (Art. 6)”, atteso che questa risultasse idonea da sola a sorreggere la decisione e che l’omessa impugnazione dell’altra (Art. 5) fosse da valutare quale difetto di interesse, ha tralasciato la trattazione della censura non ripresa nel ricorso in cassazione.

Si osserva quindi ancora una volta quanto sia importante avere dimestichezza con le questioni di giurisdizione: lo studio A&R Avvocati Rechtsanwälte, con la propria esperienza pluriennale, volentieri si rende disponibile ad assisterVi in simili questioni transfrontalieri di notevole delicatezza.

L’entrata in vigore del D.L.vo n. 198/2021 in materia di pratiche commerciali sleali nella filiera agricola e alimentare

Il 15 dicembre 2021 sono entrate in vigore le nuove disposizioni afferenti alle pratiche commerciali sleali in attuazione della Direttiva UE 2019/633 del Parlamento europeo e del Consiglio nonché attuativo dell’art. 7 della L. n. 53/2001 in materia di commercializzazione dei prodotti agricoli e alimentari.

Le nuove disposizioni si applicano ai contratti di cessione “business to business” dei prodotti agricoli e alimentari a decorrere da tale data. Invece, per quanto riguarda i contratti già in essere viene concesso un termine di sei mesi per permettere di renderli conformi alle disposizioni del decreto.

In primo luogo, il D. L.vo 198/2021 definisce il concetto di “prodotti agricoli e alimentari deperibili”. Invero, in precedenza essi venivano definiti dall’art. 62 del D.L. n. 1/2012. Tuttavia, il presente decreto va ad abrogare la precedente definizione adottando quella riportata dalla Direttiva UE 2019/633 secondo cui: “’prodotti agricoli e alimentari deperibili’: (sono) i prodotti agricoli e alimentari che per loro natura o nella fase della loro trasformazione potrebbero diventare inadatti alla vendita entro 30 giorni dalla raccolta, produzione o trasformazione”. Sotto il profilo delle disposizioni contrattuali è necessario rispettare i principi di trasparenza, correttezza, proporzionalità e reciproca corrispettività delle prestazioni in tutte le fasi contrattuali. A tal fine, il decreto impone di formulare obbligatoriamente i contratti di cessione per iscritto. In particolare, si evidenzia l’aspetto afferente alla statuizione del prezzo dei prodotti agricoli e alimentari. esso deve essere stabilito per iscritto a maggior tutela del piccolo produttore. A tal scopo, forme considerate idonee a contenere detto tipo di pattuizione sono anche i documenti di trasporto, di consegna, fatture e ordini di acquisto. Invece, con riferimento alla durata dell’accordo, essa non può essere inferiore ai dodici mesi.

Poi, all’art. 4 e 5 il decreto riporta un elenco di pratiche sleali. Le pratiche elencate all’art. 4 si possono suddividere in due tipi: le pratiche sleali vietate ergo tassativamente considerate sleali (ad es. il versamento del prezzo dopo trenta giorni dalla consegna per i beni deperibili ovvero dopo sessanta giorni per quelli non deperibili) e in quelle considerate sleali se non espressamente pattuite in precedenza, per iscritto, nel contratto di cessione (ad es. la restituzione dei prodotti agricoli rimasti invenduti senza corresponsione del prezzo per tali prodotti o il loro smaltimento). All’art. 5 sono invece riportate ulteriori condotte scorrette di cui alcune coincidono con quanto già disciplinato dall’oggi abrogato art. 62 del D.L. n. 1/2012.

Il decreto in esame pone infine una norma imperativa a disciplina delle vendite sottocosto dei prodotti agricoli ed alimentari freschi e deperibili. Esse sono consentite solamente nel caso in cui il prodotto invenduto si trovi a rischio di deperibilità ovvero in caso di operazioni commerciali già programmate in forma scritta tra le parti. Vige altresì il divieto di far ricadere sullo stesso fornitore le conseguenze economiche che discendessero da un eventuale deperimento o perdita dei prodotti agricoli e alimentari. In caso di violazione di questa norma, si avrà dunque una sostituzione di diritto ai sensi dell’art. 1339 c.c. con il prezzo risultante dalle fatture d’acquisto o quello calcolato sui costi medi di produzione. L’autorità di contrasto deputata al controllo e all’irrogazione di sanzioni in caso di rilevazione di violazioni del decreto in esame è l’ICQRF che può avvalersi dell’Arma dei Carabinieri oltre che della Guardia di Finanza. Permangono comunque le funzioni e le competenze dell’AGCM già previste dalla legge vigente (cfr. art. 18 D. L.vo n. 206/2005).

L’introduzione nel nostro ordinamento della normativa in esame, sebbene diretta ad una maggior tutela del contraente debole (il piccolo fornitore) e ad un principio di certezza dei rapporti giuridici, si può ritenere presenti anche alcuni aspetti di criticità, che verranno con buona probabilità disvelati in sede di controllo e successiva irrogazione delle relative sanzioni. Tra questi, è possibile supporre che le aziende acquirenti medio grandi dovranno affrontare una pressoché totale riorganizzazione dei propri contratti e processi interni di gestione degli stessi nonché dei pagamenti che dovranno obbligatoriamente intervenire entro trenta ovvero sessanta giorni dalla consegna, a seconda del tipo di prodotto oggetto di cessione.

A tal proposito, in totale assenza di giurisprudenza nonché di circolari esplicative o linee guida, è consigliabile adattare i propri processi interni nonché gli stipulandi contratti con i fornitori alla nuova normativa.

Detto ciò, suggeriamo di ricorrere all’ausilio di esperti del settore, come i professionisti dello studio A&R Avvocati Avvocati Rechtsanwälte, i quali grazie ad una pluriennale esperienza nell’ambito agroalimentare, Vi potranno fornire soluzioni su misura, al fine di adattare al meglio le nuove disposizioni alle Vostre esigenze aziendali.

Avv. Diana Tommasin

Efficacia del certificato successorio europeo: il punto della Corte di Giustizia Europea.

Con una recente pronuncia dello scorso luglio, la Corte di Giustizia Europea ha posto alcuni punti fermi con riguardo all’efficacia del certificato successorio europeo, strumento introdotto con il Regolamento n. 650/2012 al fine di agevolare e semplificare le procedure connesse a successioni transfrontaliere.

La decisione in esame muove dagli interrogativi sottoposti alla Corte di Giustizia dall’ Oberster Gerichtshof, der Republik Österreich, ossia la Corte Suprema dell’Austria, la quale con domanda di pronuncia pregiudiziale sottoponeva la questione vertente sull’interpretazione dell’art. 63, dell’art. 65 paragrafo 1, dell’articolo 69 e dell’articolo 70, paragrafo 3, del Regolamento n. 650/2012, relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e all’accettazione e all’esecuzione degli atti pubblici in materia di successioni e alla creazione di un certificato successorio europeo.

In breve, la Vorlarlnerger Landes-und Hypothekenbank sottoponeva a deposito giudiziario somme di denaro e titoli, in seguito alla richiesta di restituzione avanzata dal titolare degli stessi e dai figli di quest’ultimo.

In data 5 maggio 2017 il padre decedeva ed al fine di procedere con il rilascio delle somme, gli eredi ricorrevano all’Autorità giudiziaria producendo una copia autentica del certificato successorio europeo richiesto solo da uno dei due figli del de cuius e rilasciato da notaio, con periodo di validità illimitata. La richiesta dei ricorrenti veniva respinta sia in primo che in secondo grado, poiché si riteneva che solo colui che avesse chiesto il rilascio del certificato fosse in condizione di dimostrare i propri diritti, che il rilascio del certificato senza limiti di validità violasse l’art. 70 del Regolamento n. 610/2012, ove si prevede una periodo di validità di sei mesi e che, in caso di procedimento giudiziale la validità della copia prodotta dovesse perdurare sino al momento della conclusione dello stesso e non solo in quello della presentazione della domanda.

Di fronte a tali argomentazioni, in assenza di precisi riferimenti normativi, l’ Oberster Gerichtshof rimetteva al questione alla Corte di Giustizia, interrogandosi su tre punti fondamentali: nel caso in cui una copia del certificato sia stata rilasciata per una durata limitata, se questa possa considerarsi valida, se sì, per quanto tempo e a partire da quando e se la validità debba permanere per tutta la durata del procedimento o sia sufficiente che sussista solo al momento della presentazione della domanda.

I quesiti di cui sopra venivano affrontati dalla Corte di Giustizia attraverso un’analisi delle norme coinvolte, nonché della ratio sottesa non solo alle singole disposizioni, bensì all’intero impianto normativo del Regolamento n.650/2012.

Innanzitutto, infatti, si rammenta che l’intento delle disposizioni di cui al Regolamento in parola sono volte a facilitare i soggetti coinvolti in successioni transfrontaliere nell’esercizio dei loro diritti, in armonia con lo scopo ultimo proprio dell’Unione Europea, ossia la libera circolazione di persone e capitali.

Ciò detto, la Corte si sofferma sull’analisi dell’art. 70 del regolamento n. 610/2012, ove si prevede che la copia del certificato successorio europeo abbia una validità limitata a sei mesi, salvo eventuali proroghe o richiesta di una nuova copia. La motivazione alla base di tale circoscrizione temporale deriva dalla necessità di consentire una verifica periodica volta ad accertare che il certificato non sia stato revocato, modificato o rettificato, né tantomeno che i suoi effetti siano stati sospesi. Ed infatti, attesa l’importanza vitale dello strumento in esame per la facilitazione degli scambi nello spazio unionale e considerata altresì l’esposizione a possibili mutamenti anche significativi di questioni connesse con le vicende successorie, il legislatore europeo ha ben previsto la necessità, per la certezza dei traffici, di confinare la validità della copia di un certificato successorio europeo in un arco di tempo ben delineato.

Una volta compresa l’importanza dell’inquadramento temporale del periodo di validità e considerata la ratio di agevolazione sottesa all’intero impianto normativo in materia, la Corte ha concluso logicamente per la piena validità di una copia di certificato successorio europeo, la cui validità stessa era stata indicata quale illimitata, salvo limitarla ad un periodo di sei mesi, decorrenti dal momento del rilascio.

La necessità di agevolare e facilitare le procedure connesse a successioni transfrontaliere viene altresì posto alla base della soluzione all’ulteriore quesito circa il perdurare o meno della validità della copia del certificato per tutto il procedimento.  A tal proposito, la Corte ragionevolmente ritiene sufficiente che la validità sussista al momento della presentazione della domanda, poiché una soluzione contraria rischierebbe di pregiudicare gravemente i diritti degli eredi e degli aventi diritto, i quali non hanno nessuna influenza sulla durata dei procedimenti giudiziari. Inoltre, l’art. 71 del regolamento stesso fornisce un valido strumento di controllo circa la certezza della corrispondenza del contenuto della copia del certificato la cui validità sia scaduta al momento della decisione e il certificato successorio europeo, atteso l’obbligo per l’Autorità di rilascio di informare senza indugio di eventuali mutamenti di circostanze, con conseguente onere per gli informati di rendere note tali circostanze in sede di procedimento.

In ultimo, la Corte si sofferma sulla questione relativa ai soggetti nei cui confronti la validità della copia e del certificato europeo dispiega i propri effetti, concludendo, sempre in un’ottica di semplificazione e agevolazione, nel senso dell’efficacia nei confronti di tutti i soggetti aventi diritto, anche se non richiedenti, nominativamente indicati nel certificato successorio europeo.

La decisione di cui porta con sé una rilevante carica innovativa nell’ambito delle successioni transfrontaliere, uno strumento abbastanza recente nel panorama legislativo europeo e nazionale, i cui confini vengano man mano delineati sempre con maggior certezza, anche se molti sono ancora gli spazi di dubbio, per i quali si suggerisce di farsi assistere da professionisti del settore, come quelli del nostro studio A&R Avvocati Rechtsanwälte.

Avv. Valentina Preta