Il procedimento di ingiunzione europeo

Con il procedimento di ingiunzione europeo, le istituzioni dell’Unione Europea, con il Regolamento 1896/2006/CE, hanno messo a disposizione degli Stati membri uno strumento normativo di recupero dei crediti applicabile in maniera uniforme in tutti gli Stati.

Le ingiunzioni di pagamento emesse in uno qualsiasi degli Stati EU possono liberamente circolare negli altri Stati membri senza far ricorso a un procedimento intermedio di riconoscimento, in tal modo semplificando, accelerando e riducendo i costi delle controversie di natura transfrontaliera. Il ricorso a una simile procedura rimane in ogni caso, facoltativo o alternativo rispetto alle procedure monitorie nazionali e risulta solo un ulteriore strumento a disposizione degli operatori.

Il procedimento europeo d’ingiunzione, in vigore dal dicembre 2008, limita la sua portata alle controversie transfrontaliere (= quelle in cui almeno una delle parti abbia domicilio o residenza abituale in uno stato membro, diverso da quello del giudice adito) in materia civile e commerciale, al fine di recuperare crediti pecuniari d’importo determinato, scaduti ed esigibili alla data in cui è presentata l’ingiunzione di pagamento. Ne rimangono esclusi i crediti in materia tributaria, amministrativa, in materia di famiglia e successioni, i fallimenti, concordati e altre procedure analoghe, la previdenza sociale, e i crediti derivanti da obbligazioni non contrattuali, tranne ove abbiano formato oggetto di un accordo fra le parti o vi sia stato riconoscimento del debito, o ancora se i crediti riguardano debiti liquidi risultanti da comproprietà di un bene.

Tale procedimento è strettamente standardizzato e scandito dallo scambio di moduli prestabiliti ed allegati al regolamento; non è previsto per il ricorrente l’obbligo di comparire in tribunale.

La procedura inizia con la presentazione della domanda presso l’Autorità giudiziaria competente (in Germania esiste una competenza centralizzata esclusiva per tali procedimenti presso Amtsgericht/Mahngericht Berlin-Wedding.

Per la determinazione della giurisdizione si fa sempre riferimento ai criteri generali del Regolamento CE 44/2001, pertanto di solito tale procedura s’instaura nel paese, in cui ha sede il debitore convenuto, salvo che non ricorrano altri criteri che permettano il ricorso ad un foro alternativo, facoltativo od esclusivo (es: accordo sul foro competente, luogo di adempimento della prestazione ecc). In casi di richieste di pagamento nei confronti di un soggetto privato definibile come consumatore saranno competenti solo i giudici dello stato membro in cui il convenuto è domiciliato.

In questa fase non è prevista la presentazione di prove documentali. Il ricorrente si limita a descrivere le prove su cui si fonda la sua pretesa e sottoscrive una dichiarazione di fede attestante la veridicità delle informazioni date all’Autorità giudiziaria.

L’Autorità giudiziaria esamina tale domanda per verificare se ricorrono i presupposti suddetti e se la domanda non sia manifestamente infondata e si pronuncia alternativamente per: a) un accoglimento totale o parziale o b) per una richiesta di rettifiche o c) per il rigetto della domanda.

Se il giudice accoglie la domanda (di norma e in assenza di rettifiche, entro 30 gg dalla presentazione della stessa) emette un provvedimento di ingiunzione con cui intima il debitore di pagare entro 30gg. In tale occasione lo informa che il provvedimento è stato emesso sulla base delle sole informazioni del ricorrente e che non è stata compiuta alcuna attività istruttoria e lo avvisa della facoltà di fare opposizione all’ingiunzione, inoltrando l’apposito modulo allegato.

L’ingiunzione europea di pagamento è formalmente notificata alla controparte. Il debitore può opporsi entro un termine di 30gg dall’avvenuta notifica solo presso la stessa Autorità giudiziaria che ha emesso il provvedimento. L’opposizione non richiede motivazione.

In caso di opposizione il procedimento speciale solitamente si converte in ordinario ed è trasferito presso l’autorità giudiziaria competente nello stesso paese emittente, dove seguirà le regole processuali nazionali. In Germania esiste una normativa ad hoc per il trasferimento del procedimento alla fase ordinaria, in Italia in assenza di una tale norma sussistono diverse soluzioni giurisprudenziali per regolamentare questo passaggio. Un trasferimento a un’Autorità giuridica straniera non è possibile. Il procedimento in seguito all’opposizione si blocca, invece, qualora tale opzione sia stata espressamente scelta dal ricorrente al momento della proposizione della domanda.

In caso di mancata opposizione, il provvedimento d’ingiunzione diviene esecutivo e può direttamente essere utilizzato come apposito titolo nello stato membro in cui deve essere eseguito, senza che sia necessaria una dichiarazione di esecutività nello stato destinatario e senza possibilità di opposizione.

I costi di tale procedura (=Gerichtskosten) in Germania sono gli stessi previsti per il procedimento monitorio nazionale e sono da versarsi già al momento della proposizione della domanda. A tali costi sono da aggiungere le spese di notifica all’estero e le spese di traduzione. Anche gli onorari degli avvocati, salvo accordi sul compenso, sono previsti secondo tariffario forense come per la procedura monitoria interna (§ 13 RVG, Num. 3305 VV RVG) in base all’ammontare del credito fatto valere in giudizio.

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Decreto Ingiuntivo in Germania

Quando e se ricorrere a un decreto ingiuntivo nei confronti di un debitore tedesco per il recupero di un credito sospeso, dipende da diversi fattori e deve pertanto essere una scelta oculata. Tale scelta, preceduta da una valutazione a priori dell’effettiva realizzazione del credito, deve essere finalizzata a stringere i tempi e i costi del recupero nel caso concreto.

La procedura monitoria o decreto ingiuntivo in Germania (=Mahnverfahren) è adatta al recupero di crediti in denaro nei confronti di debitori pigri nei pagamenti ed è consigliabile nei casi in cui si è sicuri che la controparte non solleverà opposizione, perché in tal caso permette di ottenere in tempi e costi contenuti un titolo esecutivo. Tale procedura, infatti, come in Italia, permette di ottenere sì un provvedimento (=Mahnbescheid) in prima battuta senza coinvolgere la controparte, ma, una volta notificato al debitore, questi ha un termine di due settimane per farne opposizione per iscritto (=Widerspruch) e senza necessarietà di fornire alcuna motivazione. In seguito a tale opposizione il procedimento monitorio si trasforma in una procedura ordinaria in contraddittorio. Pertanto in caso di probabile opposizione della controparte, l’instaurazione diretta di una procedura ordinaria può evitare la perdita di tempo e di parte dei costi.

Per poter ricorrere alla procedura ingiuntiva occorre:

  • che si tratti di crediti in denaro liquidi scaduti ed esigibili (cioè che non dipendano da una controprestazione non ancora resa) e
  • che sussista la mora del pagamento del debitore (=Zahlungsverzug).

Importante è inoltre che sia conosciuto con certezza l’indirizzo della controparte. La non notificabilità del Mahnbescheid ne fa perdere il valore.

Tribunale competente

Competente per tale procedura sono sempre le preture (=Amtsgerichten) del circondario in cui ha sede il ricorrente. Le preture competenti per la procedura monitoria sono centralizzate per ogni singolo Länder (per la Baviera – per esempio – competente è l’Amtsgericht/Mahngericht Coburg, per il Baden-Württemberg l’Amtsgericht/Mahngericht Stuttgart ecc). Nei casi di ricorrente straniero (per esempio: società italiana) nei confronti di un debitore tedesco, non avendo il ricorrente sede sociale in Germania, è stabilita una competenza centralizzata presso l’Amtsgericht/Mahngericht Berlin-Wedding. La competenza delle preture è esclusiva ed indipendente dall’entità del credito che si intende far valere. I costi processuali di tale procedura sono legati all’ammontare del credito vantato. La quasi totalità dei procedimenti ingiuntivi in Germania si svolge in modo completamente automatizzato e presso tribunali specializzati, il che determina un’effettiva celerità nello svolgimento della procedura ed un abbattimento dei costi a fronte però di una estrema standardizzazione del processo. Il ricorso per decreto ingiuntivo (=Mahnantrag) avviene per iscritto e solo secondo formulari ufficiali o per procedure online da affidare a personale specializzato. In tale fase non occorre fornire alcuna prova del credito vantato o allegare documenti giustificativi. È sufficiente l’indicazione dell’ammontare del credito principale e di eventuali accessori nonché la causa del credito. Inoltrato tale ricorso presso la pretura competente, maturano i costi processuali che andranno sin da subito versati all’Autorità giudiziaria. In seguito al pagamento ed alla verifica dei presupposti per il rilascio del provvedimento ingiuntivo, l’Amtsgericht provvederà all’emissione del Mahnbescheid che verrà notificato d’ufficio al debitore. Con la notifica di tale provvedimento si ha l’interruzione del decorso dei termini di prescrizione del credito vantato.

Opposizione al decreto ingiuntivo

Il debitore a partire da tale notifica ha un termine di due settimane per fare opposizione (=Widerspruch) per iscritto (e solitamente sulla base di formulari ufficiali prestampati allegati al Mahnbescheid e forniti alla controparte al momento della notifica). In caso di notifica all’estero, per esempio a società debitrice italiana, il termine di opposizione è innalzato ad un mese dalla notifica. L’opposizione non necessita poi, di alcuna motivazione e se tempestiva determina automaticamente il passaggio della procedura da speciale in ordinaria. La pretura competente per la procedura monitoria passerà gli atti al tribunale individuato come competente dal ricorrente e questi chiederà al ricorrente ex § 697 ZPO di fornire entro due settimane le cause giustificative del credito vantato (=Anspruchsbegründung). La parte ricorrente dovrà pertanto redigere una vera e propria citazione che verrà notificata alla controparte e determinerà l’instaurazione del processo ordinario secondo le regole del codice di procedura civile tedesco (ZPO). Qualora, invece, il debitore non sollevi alcuna opposizione tempestiva la pretura adita rilascerà – su richiesta specifica del creditore (= Antrag auf Vollstreckungsbescheid) – il titolo (=Vollstreckungsbescheid). Tale richiesta deve avvenire al più tardi entro sei mesi dalla notifica del Mahnbescheid al debitore e deve contenere la specifica indicazione se ed in che parte siano avvenuti pagamenti parziali da parte del debitore che riducano il credito complessivo. Anche tale ricorso avviene su moduli ufficiali predeterminati o secondo procedura online. Il Vollstreckungsbescheid è un titolo provvisoriamente esecutivo che viene, a sua volta, notificato d’ufficio dall’Autorità giudiziaria alla controparte debitrice. Quest’ultima ha un termine perentorio di due settimane dalla notifica per fare opposizione (=Einspruch gegen Vollstreckungsbescheid) al titolo rilasciato in toto o in parte. Anche tale opposizione deve avvenire per iscritto ma non sono previsti obblighi di forma e di motivazione. Qualora decorse le due settimane dalla notifica, la controparte non abbia sollevato alcuna opposizione, il ricorrente titolare del Vollstreckungsbescheid definitivo potrà accedere alla fase esecutiva ulteriore sul patrimonio del debitore.

Costi del decreto ingiuntivo

I costi della procedura di decreto ingiuntivo si dividono in costi processuali per l’attività dell’Autorità giudiziaria (=Gerichtskosten) e onorari per gli eventuali procuratori legali (=Rechtsanwaltsgebühren), cui sono da aggiungere spese generali e IVA. Entrambi sono commisurati al credito preteso. In caso di passaggio alla fase ordinaria solitamente tali costi sono parzialmente scomputati da quelli previsti per la fase ordinaria.

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L’effetto di un decreto ingiuntivo non opposto: La Cassazione decide su un caso italo-tedesco

Nell’ordinanza n. 8937/2024, la Suprema Corte di Cassazione ha ribadito un principio giurisprudenziale di particolare rilievo, precisando la portata che un decreto ingiuntivo non opposto può avere. Tale decisione sottolinea l’importanza di una corretta gestione dei procedimenti monitori, specialmente nei rapporti commerciali transfrontalieri tra Italia e Germania.

Nel caso di specie un’impresa individuale tedesca aveva richiesto un risarcimento nei confronti di una società italiana per una fornitura di carne avariata. Il danno non si limitava alla merce stessa, ma si estendeva alla contaminazione di altri prodotti presenti nei locali dell’impresa tedesca.

La società fornitrice, risultata soccombente sia in primo grado sia in appello, ha successivamente presentato ricorso per cassazione. L’argomentazione principale era che i giudici di merito avrebbero erroneamente escluso l’efficacia di giudicato del decreto ingiuntivo emesso prima dell’avvio del processo di primo grado e non opposto dalla società tedesca. Secondo la società ricorrente, tale decreto confermava implicitamente anche la regolarità della consegna della merce e, di conseguenza, l’assenza di vizi.

La Corte di Cassazione ha accolto l’argomentazione della società fornitrice. In virtù del principio dello ius receptum, essa ha stabilito che, in presenza di due giudizi tra le medesime parti riguardanti il medesimo rapporto giuridico, l’accertamento definitivo contenuto in una decisione passata in giudicato preclude il riesame di questioni decisive comuni ad entrambi i giudizi.

La Corte ha inoltre sottolineato che tale preclusione si estende anche alle questioni che costituiscono precedenti logici essenziali alla decisione, indipendentemente dallo scopo specifico delle due cause. In particolare, il giudicato si estende sia al dedotto sia al deducibile, ovvero non solo alle questioni espressamente sollevate, ma anche a quelle che possono esserne dedotte. Questo principio vale anche nel caso in cui il giudicato si formi non a seguito di una sentenza, ma di un decreto ingiuntivo non opposto.

La decisione acquista particolare rilievo nei rapporti commerciali tra Germania e Italia. Nel caso in questione, il decreto ingiuntivo non opposto, che condannava l’acquirente tedesco al pagamento del prezzo della fornitura, ha impedito ogni successivo riesame della questione relativa all’inadempimento per vizi della merce fornita. La preclusione deriva dal fatto che l’obbligo di pagamento, riconosciuto con efficacia di giudicato, implica la presunzione di regolarità della fornitura. La Corte ha quindi cassato la sentenza d’appello e, decidendo nel merito, ha rigettato la domanda di risarcimento dell’impresa tedesca, condannandola al pagamento delle spese processuali per tutti i gradi di giudizio.

Il principio così stabilito risulta in netto contrasto con le disposizioni legislative tedesche, che prevedono esplicitamente l’effetto del giudicato unicamente sulle questioni decise e non su quelle deducibili, come espressamente previsto dal § 322 codice di procedura civile tedesco. In Germania, il giudicato è circoscritto agli elementi espressamente esaminati dalla decisione, il che lascia più margine per contestare altri aspetti del rapporto giuridico in successivi procedimenti.

La decisione della Cassazione rappresenta un monito per gli operatori economici tedeschi che intraprendono relazioni commerciali con controparti italiane. Proprio per questo motivo si evidenzia l’importanza di reagire tempestivamente a un decreto ingiuntivo per evitare che una decisione negativa possa avere effetti preclusivi non solo su un singolo aspetto del rapporto giuridico, ma anche su questioni logicamente connesse.

Esenzione IMU per immobili occupati abusivamente: importante sentenza della Corte Costituzionale

Le occupazioni abusive costituiscono un problema di grande rilevanza per molti proprietari di immobili. Una recente pronuncia della Corte Costituzionale (Sentenza n. 60 del18 aprile 2024), tuttavia, rappresenta una buona notizia per i proprietari, stabilendo in determinate circostanze l’esenzione dall’obbligo di pagamento dell’imposta municipale unica sugli immobili e offrendo, dunque, una maggiore tutela.

La gestione di un immobile di proprietà può rivelarsi complessa e problematica, specialmente in caso di occupazioni abusive. Oltre al danno derivante dall’utilizzo illegittimo della proprietà da parte di terzi, si aggiunge spesso l’onere del pagamento dell’IMU. Le lunghe tempistiche processuali e le difficoltà nelle procedure di sgombero possono comportare ingenti costi. Finora, l’obbligo di pagamento dell’IMU gravava su tutti i proprietari, indipendentemente dall’effettiva disponibilità della proprietà e anche qualora essa fosse abusivamente occupata.

La recente pronuncia introduce un’importante deroga all’obbligo di pagamento dell’IMU. La Corte Costituzionale ha infatti stabilito che i proprietari di immobili occupati debbano essere esentati dal pagamento dell’IMU per motivi costituzionali, a condizione che l’occupazione abusiva sia stata denunciata tempestivamente e formalmente alle autorità competenti. In buona sostanza, ciò significa che i proprietari che intraprendono azioni legali volte a porre fine all’occupazione abusiva non saranno soggetti a tassazione sull’immobile occupato.

Per poter beneficiare dell’esenzione dal pagamento dell’IMU sull’immobile oggetto di occupazione abusiva, devono verificarsi i seguenti requisiti fondamentali:

  • Tempestiva denuncia dell’occupazione alle autorità competenti;
  • Prova degli sforzi messi in atto per porre fine all’occupazione, p.es.  l’avvio di una procedura di sgombero o l’impiego di un servizio di sicurezza.

La pronuncia della Corte Costituzionale rappresenta un passo significativo nella tutela dei diritti dei proprietari, prevenendo oneri finanziari ingiustificati e rafforzando il diritto alla proprietà.

Per chi è vittima di un’occupazione abusiva, è assolutamente consigliabile rivolgersi ad un avvocato specializzato. Una consulenza legale adeguata può agevolare uno sgombero tempestivo dell’immobile ed evitare ulteriori svantaggi economici.

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Il valore del conferimento in denaro tra coniugi sposati in regime di separazione dei beni: è criterio sufficiente per determinare la sussistenza di una società di fatto tra marito e moglie?

Nella relazione tra coniugi può capitare che il marito o la moglie effettuino a favore dell’altro coniuge ovvero della sua azienda dei versamenti in denaro ovvero dei finanziamenti. Tuttavia, tale circostanza potrebbe dare adito a spiacevoli conseguenze in termini di responsabilità di alcuno dei coniugi qualora le suddette operazioni economiche fossero inquadrate come inserite in un contesto societario ove il coniuge “finanziatore” potesse essere qualificato come “socio di fatto” dell’azienda della propria moglie o del proprio marito, risultando dunque un unico soggetto di diritto.

Al fine di verificare la sussistenza di tale circostanza e, quindi, l’esistenza di una società di fatto tra coniugi, debbono sussistere alcuni requisiti ovverossia un elemento oggettivo, rappresentato dal conferimento di beni o servizi, con la formazione di un fondo comune, e di un elemento soggettivo, costituito dalla comune intenzione dei contraenti di vincolarsi e di collaborare per conseguire risultati patrimoniali comuni nell’esercizio collettivo di un’attività imprenditoriale. Tale comune intenzione costituisce il contratto sociale, senza del quale la società, non può esistere.

Stante la definizione di cui sopra, si deve procedere ad analizzare se effettivamente il conferimento di denaro da parte della moglie o del marito (elemento oggettivo) e la ratio con cui si è effettuata l’operazione economica (elemento soggettivo) siano elementi sufficienti ad indurre il Giudice a ritenere che tra i coniugi sposati in regime di separazione dei beni sussista una società di fatto.

A tal riguardo, ci si riporta ad una pronuncia della Cassazione che specifica ulteriormente il concetto di società di fatto per la cui esistenza “è sufficiente la dimostrazione di un comportamento, da parte dei soci, tale da ingenerare nei terzi il convincimento giustificato ed incolpevole che quelli agissero come soci, atteso che, nonostante l’inesistenza dell’ente, per il principio dell’apparenza del diritto, il quale tutela la buona fede dei terzi, coloro che si comportino esteriormente come soci vengono ad assumere in solido obbligazioni come se la società esistesse”, specificando però che in caso di consanguinei “la prova della esteriorizzazione del vincolo deve essere particolarmente rigorosa, occorrendo che essa si basi su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l’intervento del familiare possa essere motivato dalla “affectio familiaris”, sicché, di regola, non è di per sé sufficiente la dimostrazione di finanziamenti e/o pagamenti ai creditori dell’impresa da parte del congiunto dell’imprenditore, costituendo questi atti neutri, spiegabili anche in chiave di solidarietà familiare” (Cass. civ. n. 16829/2013).

Dalla pronuncia riportata, si evince che un semplice finanziamento o un intervento del familiare non possa di per sé indurre a ritenere la sussistenza di una società di fatto tra congiunti ma è necessaria l’esteriorizzazione, cioè l’effettiva manifestazione esterna, del vincolo.

Con riferimento al concetto di “esternalizzazione”, cioè alla circostanza per cui il vincolo sociale sia conoscibile all’esterno, bisogna far riferimento ad alcuni indicatori afferenti alla società di fatto determinati dalla giurisprudenza. Secondo quest’ultima, affinché sussista una società di fatto è necessario che emergano nei confronti dei terzi:

– La contemplatio domini: non è necessaria la spendita del nome degli altri soci, essendo sufficiente che il comportamento di chi agisce per la società siano tali da rendere palese al terzo sia il vincolo sociale sia la riferibilità del negozio alla società;

– Finanziamenti, fideiussioni e altre garanzie quando, in concorso con gli altri elementi strutturali del rapporto di società, attuano una sistematica opera a sostegno all’impresa. Con riferimento alla sistematicità degli interventi, non bisogna far riferimento ad un criterio solamente quantitativo ben potendo essere rilevante un finanziamento sotto il profilo qualitativo ad es. finanziamenti effettuati in momenti decisivi per lo sviluppo dell’impresa o per evitarne la crisi;

– Esistenza di un fondo comune e presenza dell’affectio societatis che emerge dal vincolo di cooperazione instaurato per un interesse comune nonché dallo scopo della ripartizione degli utili. L’affectio societatis può essere desumibile anche dalla mancanza di retribuzione;

– In particolare, con riferimento alla società costituita tra i coniugi, per poter affermare l’esistenza di una società di fatto tra coniugi occorrono elementi sistematici ed univoci dai quali si possa desumere l’effettiva intenzione di gestire in comune l’attività. Inoltre, tali elementi concludenti debbono essere rigorosamente provati, nonché idonei ad escludere che l’eventuale partecipazione all’attività aziendale del coniuge sia motivata esclusivamente dall’affectio maritalis nonché a delineare in modo inequivoco la compartecipazione all’attività commerciale.

 

In conclusione, un coniuge può essere qualificato come “socio di fatto” dell’altro ed incorrere in responsabilità in relazione alle vicende che coinvolgano la società del partner nel caso in cui sussista un effettivo conferimento ovvero finanziamento al coniuge o alla sua società, nel caso in cui vi sia una volontà di partecipare alla società e l’operazione economica effettuata ne è una prova e, inoltre, deve sussistere la percezione – da parte dei terzi – che marito e moglie agiscano “in società” in modo sistematico ed univoco.

La misura della provvigione del mediatore in assenza di accordo e il criterio dell’equità

Molte delle controversie che sorgono nell’ambito della compravendita immobiliare riguardano la provvigione spettante al mediatore nonché la misura della stessa. Sul punto, il codice civile fornisce definizioni e principi che in combinato disposto con le disposizioni di legge e l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza, forniscono una soluzione alle vertenze in tema di misura della provvigione.

Come noto, il mediatore è quel soggetto che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare. Come già trattato in precedenza, il diritto alla provvigione del mediatore nasce per il solo fatto di aver messo in contatto le parti per la conclusione dell’affare che viene individuata nella conclusione di un contratto (anche preliminare) (vedasi anche Provvigione per il mediatore senza conferimento di incarico?).

Qualora la controversia non verta tanto sull’an, poiché l’affare tra le parti è stato concluso, ma sul quantum, ovverossia sulla misura della provvigione, è necessario innanzitutto prendere in considerazione il dettato dell’art. 1755 c.c. e verificare se vi sia accordo tra le parti in relazione alla provvigione.

Nel caso in cui le parti (tra loro e con il mediatore) non abbiano precedentemente pattuito la misura della provvigione, sempre ai sensi dell’art. 1755 c.c. si deve far riferimento ad altri criteri sussidiari. Essi sono le tariffe professionali e gli usi. In mancanza di questi elementi, la provvigione verrà invece determinata dal Giudice secondo il criterio dell’equità. Tuttavia, prima di fare ricorso al criterio equitativo, bisogna tener conto del dettato della L. 39/1989 concernente la disciplina della professione del mediatore, ad oggi ancora in vigore.

Essa all’art. 6 prevede che “la misura delle provvigioni e la proporzione in cui questa deve gravare su ciascuna delle parti, in mancanza di patto, sono determinate dalle giunte camerali, sentito il parere della commissione provinciale di cui all’art. 7 e tenendo conto degli usi locali”. All’uopo si precisa che le commissioni provinciali sono commissioni istituite in seno a ciascuna camera di commercio che si occupa delle iscrizioni nel ruolo e alla tenuta del ruolo stesso.

Ciò è supportato anche dalla giurisprudenza di merito che qualifica la norma testé rammentata come integrativa della precitata disposizione del c.p.c. In tal senso si è recentemente pronunciato un Tribunale, precisando che: “Accertata l’attività di mediazione, in base all’art. 1755 del c.c., il giudice determina la misura della provvigione, e la proporzione in cui questa deve gravare su ciascuna delle parti, in mancanza di patto, tariffe personali o di usi, secondo equità. Al riguardo, l’art. 6 cpv. L. 3 febbraio 1989, n.39 recante la modifica e le integrazioni alla L. n. 253 del 1958, concernente la disciplina di professione del mediatore, dispone che in mancanza di patto, la misura e la proporzione predette sono determinate dalle giunte camerali, sentito il parere della commissione provinciale e tenendo conto degli usi locali. Tale norma, non ha nonostante detta integrazione resta sostanzialmente invariata” (Trib. Parma 28/02/2018, n.311). La natura integrativa della norma viene altresì confermata dalla dottrina (G. Cian).

Da quanto sopra esposto si evince che dati i criteri delle tariffe professionali e gli usi, il criterio dell’equità assuma un carattere del tutto residuale.

In particolare, la giurisprudenza precisa che “atteso il carattere sussidiario dei criteri previsti in ordine successivo dall’art. 1755, secondo comma c.c., questa deve essere determinata dal giudice secondo equità, se le parti non ne abbiano stabilito la misura e se non è provata l’esistenza di tariffe professionali e di usi locali” (Cass. civ. sent. n.13656/2012) ed ancora “la misura della provvigione dovuta al mediatore è determinata dal giudice solo in assenza di specifica previsione delle parti, secondo le fonti di integrazione previste in ordine successivo dall’art. 1755, comma 2, c.c.; di conseguenza, la mancata prova degli usi normativi non comporta, per ciò solo, il rigetto della domanda, dovendosi ricorrere al criterio subordinato dell’equità” (Cass. civ. sent. n.11127/2022).

Di conseguenza, il criterio dell’equità sarà utilizzatro dal Giudice per determinare l’ammontare della provvigione solamente come extrema ratio. Peraltro, al criterio dell’equità deve essere interpretato nel senso civilistico del termine. La dottrina afferma che questo è un criterio non stabilito dalla legge ma rimesso al senso di equilibrio del Giudice sulla scorta del quale il giudicante, nel decidere una controversia, è chiamato a far ricorso a criteri di convenienza e di comparazione degli interessi delle parti. Proprio per questo, l’art. 1755 c.c. non fornisce evidenza dei vari fattori che devono essere tenuti in conto in una decisione in via equitativa.

Tuttavia, come sopra già precisato, si può ritenere che una decisione secondo equità possa essere assunta tenuto conto della convenienza e della comparazione degli interessi delle parti. Nel caso della mediazione, alcuni degli interessi e/o fattori potrebbero essere costituiti da: valore dell’operazione, tipologia e quantità di attività svolta dal mediatore, nesso causale tra questa e la conclusione dell’operazione economica in esame.

La validità della clausola di proroga di giurisdizione nelle Condizioni Generali del contratto

Le vendite internazionali intraeuropee, come ben noto, sono spesso regolate non solo dai regolamenti europei e norme internazionali ma, più di frequente, dalle Condizioni Generali di natura pattizia stabilite tra le parti. Tale strumento viene utilizzato altresì per ovviare ad uno dei problemi che molto spesso si presenta nella vendita internazionale, che consiste nel determinare la giurisdizione cui adire nel caso di controversie tra le parti.

Pertanto, in ambito europeo, i partner commerciali spesso inseriscono nelle Condizioni Generali la cd. clausola di proroga della giurisdizione per cui si stabilisce che le eventuali controversie insorgenti tra le parti siano decise dal Giudice di uno Stato Membro piuttosto che di un altro.

Trattandosi molto spesso di vendite a distanza, ovvero concluse mediante l’utilizzo di mezzi telematici, è emerso un profilo di criticità con riferimento alla forma che tali clausole, inserite all’interno delle Condizioni Generali, debbono rivestire al fine di comprovare la loro accettazione e validità tra le parti.

Sul punto, l’art. 23 del cd. Regolamento Bruxelles I peraltro, pur sancendo la necessità della forma scritta per gli accordi che contengano la clausola afferente alla proroga della competenza, prevede che essa ricomprenda “qualsiasi comunicazione con mezzi elettronici che permetta una registrazione durevole dell’accordo attributivo di competenza”.

Inoltre, l’art 25 del Reg. UE n. 1215/2012 dispone che la proroga di competenza è ammessa in una forma ovvero da un uso “che le parti conoscevano o avrebbero dovuto conoscere e che, in tale ambito, è ampiamente conosciuto e regolarmente rispettato dalle parti di contratti dello stesso tipo nel settore commerciale considerato”.

Ciò posto, si evidenzia come la Suprema Corte, Sezioni Unite, n. 21622/2017, abbia dato applicazione alle precitate disposizioni concernente anche la “forma” delle Condizioni Generali del contratto concluso tra due partner commerciali, nel caso di due società, l’una italiana e l’altra tedesca, che avevano stipulato un contratto mediante scambio di messaggi di posta elettronica e per l’inadempimento del quale la società italiana aveva convenuto avanti il giudice domestico la controparte tedesca.

Quest’ultima eccepiva il difetto di giurisdizione in forza della clausola di proroga della giurisdizione inserita nelle sue Condizioni Generali conosciute ed accettate dalle parti, in quanto la società tedesca richiamava nel proprio ordine di acquisto le proprie Condizioni generali, le quali erano poi fruibili per intero sul sito di detta società sia in lingua tedesca sia in lingua inglese.

Sulla scorta di tali evidenze, la Cassazione richiamava la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ove si confermava che nel caso in cui la clausola di proroga della giurisdizione sia contenuta in Condizioni Generali di contratto disponibili mediante accesso al sito internet, si è in presenza di “una comunicazione elettronica che per mette di registrare durevolmente tale clausola, ai sensi di tale disposizione, allorché consente di stampare e salvare il testo di dette condizioni prima della conclusione del contratto” (C 322/14).

In conclusione, le Sezioni Unite ribadivano quanto già espresso dai regolamenti europei nonché dalla giurisprudenza per la Corte di Giustizia ribadendo che, al fine della validità tra partner commerciali della clausola di proroga della giurisdizione è necessario e sufficiente che la stessa, seppure in forma scritta, possa essere contenuta anche nelle Condizioni Generali e sia reperibile tramite collegamenti ipertestuali che conducano a comunicazioni elettroniche permanenti, fruibili e che consentano a ciascun operatore commerciale di provvedere alla loro conservazione tramite, ad esempio, la stampa delle stesse.

Avv. Diana Tommasin

Il controllo giurisdizionale della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato.

Corte di Giustizia Europea, Grande Sezione, Sentenza 21 dicembre 2021.

Le annose questioni relative all’intersecarsi tra la giurisdizione amministrativa e quella ordinaria hanno trovato un’ulteriore declinazione nella vicenda qui in commento, ove ci si è spinti sino ad interrogarsi circa la possibilità di riconoscere competente l’organo giurisdizionale supremo nazionale  ad esercitare un controllo di tutela giurisdizionale sulle sentenze pronunciate dal supremo organo della giustizia amministrativa nazionale, per garantire la tutela giurisdizionale effettiva richiesta dal diritto dell’Unione europea.

La vicenda in esame trae origine da una procedura di gara per un appalto pubblico da aggiudicare in base al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, con previsione di una soglia di sbarramento per le offerte tecniche, in cui una delle partecipanti veniva esclusa, senza neppure essere ammessa alla fase successiva antecedente l’aggiudicazione finale, poiché la sua offerta aveva ottenuto un punteggio inferiore a quello corrispondente alla predetta soglia di sbarramento.

La partecipante esclusa ricorreva dapprima al Tribunale amministrativo regionale competente, contestando, da un lato, la propria esclusione e dall’altro, la regolarità della procedura. Il TAR adito, ritenuto che la ricorrente avesse legittimamente partecipato alla gara e ne fosse stata esclusa a causa della valutazione negativa dell’offerta, pronunciandosi dunque per l’ammissibilità del ricorso, valutava nel merito i motivi addotti, respingendoli integralmente.

In seguito, la partecipante esclusa proponeva appello innanzi al Consiglio di Stato, che, sempre muovendo dall’avvenuta esclusione, non solo respingeva nel merito l’appello proposto, ma addirittura riformava la pronuncia del TAR ritenendo l’appellante neppure legittimata a contestare nel merito gli esiti della gara. Più precisamente, l’appellante, poiché esclusa per non aver ottenuto il punteggio minimo richiesto dalla soglia di sbarramento e, non essendo stata in grado di dimostrare l’illegittimità della gara quanto all’attribuzione del predetto punteggio, di per sé era portatrice di un mero interesse di fatto, analogo a quello di qualunque altro operatore economico del settore non partecipante alla gara.

Avverso tale ultima pronuncia, la partecipante esclusa proponeva ricorso innanzi alla Corte suprema di Cassazione, lamentando la violazione del diritto ad un ricorso effettivo, di cui all’art. 1 della direttiva 89/665 e sostenendo che tale circostanza costituisse uno dei motivi inerenti alla giurisdizione ex art. 111 comma 8 Cost., per i quali è previsto il ricorso in Cassazione contro le decisioni del Consiglio di Stato.

Innanzi a tale eccezione, veniva adita la Corte di Giustizia Europea ed il giudice del rinvio interrogava l’organismo europeo proprio sulla questione relativa alla possibilità di ricorrere alla Suprema Corte nazionale per tutelare il diritto ad un ricorso effettivo, nonostante la giurisprudenza della Corte Costituzionale italiana, sent. n. 6/2018, abbia stabilito che, allo stato, non sia ammissibile equiparare un motivo vertente su una violazione del diritto dell’Unione a un motivo inerente alla giurisdizione, ai sensi dell’art. 111 comma 8 Cost.

Al fine di risolvere la questione prospettatale, la Corte di Giustizia Europea, muove innanzitutto dall’individuazione precisa della normativa europea di interesse, estrapolandone i principi rilevanti e analizzando dettagliatamente la riconducibilità del sistema di tutela giurisdizionale offerto dallo Stato membro al diritto sovranazionale, così come interpretato dalla Corte.

Per quanto concerne la normativa applicabile al caso di specie, la Corte richiama l’art. 4, paragrafo 3 3 l’art. 19, paragrafo 1 TUE, nonché l’art. 1, paragrafi 1 e 3, della direttiva 89/665, letto alla luce dell’art. 47 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea.

In merito all’art. 19 paragrafo 1 TUE, questo obbliga tutti gli Stati membri a stabilire rimedi giurisdizionali necessari per assicurare ai singoli, nei settori disciplinati dall’Unione Europea, il rispetto del loro diritto a una tutela giurisdizionale effettiva. Ciò detto, il legislatore europeo lascia ampia discrezionalità agli Stati membri circa l’individuazione dei rimedi processuali e giurisdizionali attraverso i quali attuare tale principio, salvo sempre il possibile vaglio da parte della Corte di Giustizia.

Una volta accertata, dunque, la possibilità in linea di massima degli Stati membri di poter organizzare la tutela giurisdizionale in maniera discrezionale, ivi inclusa dunque anche la previsione di un sistema di preclusioni per l’impugnazione delle decisioni del supremo organo della giustizia amministrativa da parte del supremo organo della giustizia ordinaria, la Corte analizza l’idoneità del sistema italiano a garantire la tutela del diritto ad un ricorso effettivo di matrice unionale, attraverso il vaglio della conformità ai principi di equivalenza ed effettività.

Per quanto riguarda il principio di equivalenza, la Corte rileva che l’art. 111 comma 8 Cost. limita, con le stesse modalità, la possibilità di ricorrere in Cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato, indipendentemente dal fatto che tali ricorsi siano basati sulla violazione della normativa nazionale o del diritto dell’Unione.

Con riferimento al principio di effettività, la Corte evidenzia che il diritto dell’Unione europea non obbliga gli Stati membri a istituire mezzi di ricorso ulteriori a quelli già esistenti, salvo che il sistema renda impossibile o estremamente difficile l’effettiva tutela dei diritti accordati a livello sovranazionale. Nel sistema italiano, però, la tutela giuridica dei diritti garantiti dall’Unione Europea viene comunque consentita, essendovi un giudice precostituito per legge, nonché la previsione dettagliata dei rimedi giurisdizionali esperibili.

Inoltre, un obbligo nel senso di istituire nuovi rimedi giurisdizionali non può neppure essere ravvisato nell’art. 4, paragrafo 3 TUE, ove si prescrive agli Stati membri di adottare ogni misura di carattere generale e particolare volta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle Istituzioni dell’Unione, dovendo ritenersi soddisfatto tale requisito ove i rimedi già esistenti appaiano idonei al raggiungimento di tale scopo.

Con riferimento alla norma di cui all’art. 1, paragrafo 1 della direttiva 89/665, letta alla luce dell’art. 47 della Carta, anche tale requisito pare essere del tutto soddisfatto, attesa la sussistenza di un giudice precostituito per legge al quale i singoli possono facilmente rivolgersi, non potendosi rinvenire, come già riferito, un divieto per lo Stato di prevedere limitazioni in ordine a ulteriori valutazioni sulle decisioni del supremo organo della giustizia amministrativa.

Alla luce delle motivazioni sopra esposte, dunque, la Corte di Giustizia Europea concludeva dunque per la legittimità del sistema di preclusione individuato ai sensi dell’art. 111 comma 8 Cost., così come interpretato dalla giurisprudenza nazionale, non ravvisando nessuna lesione del diritto ad un’effettiva tutela, ove impedita la possibilità di ricorrere al supremo organo della giurisdizione amministrativa avverso ad una decisione del Consiglio di Stato.

Ciò detto, la Corte opera però una valida censura alle decisioni adottate sia dal TAR che dal Consiglio di Stato, cogliendo nuovamente l’occasione per ribadire la portata del concetto di “partecipante escluso”. Ed infatti, l’esclusione ad una gara per un appalto pubblico ai sensi del diritto europeo, non può e non deve essere determinata dal semplice mancato raggiungimento di eventuali criteri richiesti, bensì  l’esclusione di un offerente è definitiva, sino a quel momento ancora sussistendo dunque un vero e proprio interesse legittimo, se l’esclusione stessa è stata comunicata ed è stata ritenuta legittima da un organo di ricorso indipendente o se non può più essere oggetto di una procedura di ricorso.

Avv. Valentina Preta

Tassazione immobili in Italia (IMU) per soggetti stranieri

La Legge di Bilancio 2022 (comma 743 dell’articolo 1 della L. num. 234/ 2021) contiene novità per alcuni soggetti non residenti nel territorio dello Stato relativamente alla imposta sugli immobili (IMU). Questa, che nella legge di bilancio dell’anno precedente era prevista come decurtata al 50 per cento, attualmente viene diminuita al 37,5 per cento.

Da un punto di vista soggettivo possono beneficiare di detta agevolazione i pensionati residenti all’estero, cioè i soggetti titolari di una pensione maturata in regime di convenzione internazionale con l’Italia. Dette persone devono essere non residenti in Italia e invece residenti in uno stato estero di assicurazione. Importante ai fini della residenza è che non è necessaria l’iscrizione all’AIRE (Anagrafe dei cittadini italiani residenti all’estero), cioè teoricamente detta agevolazione può spettare anche a soggetti pensionati di nazionalità non italiana (e per esempio tedeschi) che siano proprietari di un unico immobile in Italia. Sotto il profilo oggettivo detta agevolazione è applicabile solo ad un’unica unità immobiliare deputata ad uso abitativo. È necessario infatti, che l’immobile relativamente al quale sia dovuta l’IMU non sia affittato o concesso in comodato d’uso. Inoltre l’immobile in agevolazione deve essere posseduto in qualità di proprietari o di usufruttuari.