La validità della clausola di proroga di giurisdizione nelle Condizioni Generali del contratto

Le vendite internazionali intraeuropee, come ben noto, sono spesso regolate non solo dai regolamenti europei e norme internazionali ma, più di frequente, dalle Condizioni Generali di natura pattizia stabilite tra le parti. Tale strumento viene utilizzato altresì per ovviare ad uno dei problemi che molto spesso si presenta nella vendita internazionale, che consiste nel determinare la giurisdizione cui adire nel caso di controversie tra le parti.

Pertanto, in ambito europeo, i partner commerciali spesso inseriscono nelle Condizioni Generali la cd. clausola di proroga della giurisdizione per cui si stabilisce che le eventuali controversie insorgenti tra le parti siano decise dal Giudice di uno Stato Membro piuttosto che di un altro.

Trattandosi molto spesso di vendite a distanza, ovvero concluse mediante l’utilizzo di mezzi telematici, è emerso un profilo di criticità con riferimento alla forma che tali clausole, inserite all’interno delle Condizioni Generali, debbono rivestire al fine di comprovare la loro accettazione e validità tra le parti.

Sul punto, l’art. 23 del cd. Regolamento Bruxelles I peraltro, pur sancendo la necessità della forma scritta per gli accordi che contengano la clausola afferente alla proroga della competenza, prevede che essa ricomprenda “qualsiasi comunicazione con mezzi elettronici che permetta una registrazione durevole dell’accordo attributivo di competenza”.

Inoltre, l’art 25 del Reg. UE n. 1215/2012 dispone che la proroga di competenza è ammessa in una forma ovvero da un uso “che le parti conoscevano o avrebbero dovuto conoscere e che, in tale ambito, è ampiamente conosciuto e regolarmente rispettato dalle parti di contratti dello stesso tipo nel settore commerciale considerato”.

Ciò posto, si evidenzia come la Suprema Corte, Sezioni Unite, n. 21622/2017, abbia dato applicazione alle precitate disposizioni concernente anche la “forma” delle Condizioni Generali del contratto concluso tra due partner commerciali, nel caso di due società, l’una italiana e l’altra tedesca, che avevano stipulato un contratto mediante scambio di messaggi di posta elettronica e per l’inadempimento del quale la società italiana aveva convenuto avanti il giudice domestico la controparte tedesca.

Quest’ultima eccepiva il difetto di giurisdizione in forza della clausola di proroga della giurisdizione inserita nelle sue Condizioni Generali conosciute ed accettate dalle parti, in quanto la società tedesca richiamava nel proprio ordine di acquisto le proprie Condizioni generali, le quali erano poi fruibili per intero sul sito di detta società sia in lingua tedesca sia in lingua inglese.

Sulla scorta di tali evidenze, la Cassazione richiamava la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ove si confermava che nel caso in cui la clausola di proroga della giurisdizione sia contenuta in Condizioni Generali di contratto disponibili mediante accesso al sito internet, si è in presenza di “una comunicazione elettronica che per mette di registrare durevolmente tale clausola, ai sensi di tale disposizione, allorché consente di stampare e salvare il testo di dette condizioni prima della conclusione del contratto” (C 322/14).

In conclusione, le Sezioni Unite ribadivano quanto già espresso dai regolamenti europei nonché dalla giurisprudenza per la Corte di Giustizia ribadendo che, al fine della validità tra partner commerciali della clausola di proroga della giurisdizione è necessario e sufficiente che la stessa, seppure in forma scritta, possa essere contenuta anche nelle Condizioni Generali e sia reperibile tramite collegamenti ipertestuali che conducano a comunicazioni elettroniche permanenti, fruibili e che consentano a ciascun operatore commerciale di provvedere alla loro conservazione tramite, ad esempio, la stampa delle stesse.

Avv. Diana Tommasin

Giurisdizione e connessione di causa

Nelle controversie transfrontaliere, in cui sono coinvolte società con sedi in diversi paesi, le questioni di giurisdizione svolgono sempre un ruolo determinante, non solo in seno al giudizio bensì anche in una fase stragiudiziale prodromica allo stesso e nel momento della scelta del foro da adire. In altri termini l’arte del forum shopping, se ben conosciuta, agevola la soluzione delle cause.

Segnaliamo un’interessante attualissima sentenza della Corte di cassazione italiana – sezioni unite civili – num. 4294/2022. Una società di modellistica di diritto italiano incardinava un giudizio di accertamento negativo della contraffazione di diritti di privativa industriale contro due società: la Ferrari spa – di diritto italiano, con sede in Italia e la Ferrari Idea s.a., di diritto svizzero con sede a Lugano. Entrambe queste società avevano diffidato la società italiana di modellistica ad interrompere l’utilizzo del marchio “Ferrari”, inviando medesime diffide anche al rivenditore e al distributore inglese (luogo di distribuzione dei prodotti). Costellazione internazionale della vicenda che veniva sottoposta dall’attrice all’attenzione dei giudici italiani. L’eccezione di giurisdizione sollevata dalle società Ferrari veniva in I e II grado rigettata dai giudici emiliani, pertanto si arrivava in Cassazione. Anche in tale fase si confermava la giurisdizione italiana, quale correttamente adita e ciò sulla base di ragioni di connessione e di esigenze prioritarie di coerenza di giudicati. Gli ermellini hanno fondato la giurisdizione italiana sulla base dell’Art. 6 della Convezione di Lugano del 16.09.1988, che concerne proprio la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e le esecuzioni delle decisioni in materia civile e commerciale in relazione agli stati coinvolti (Italia e Svizzera), convenzione parallela alla Convenzione di Bruxelles del 27.09.1968 (sebbene entrambe superate da strumenti più aggiornati, nel caso di specie applicabili per ragioni temporali). Ai sensi di detto articolo un soggetto convenuto potrà essere citato (anche) – in caso di pluralità di convenuti – davanti al giudice nella cui circoscrizione è situato il domicilio di uno di essi. Pertanto, avendo la Ferrari spa sede legale in Italia ed essendo essa una delle due società coinvolte (invero le diffide stragiudiziali venivano inoltrate da entrambe le società Ferrari) ciò rendeva possibile l’incardinazione del giudizio in Italia, per ragioni di connessione soggettiva e oggettiva. La Cassazione si indirizzava in tal senso proprio applicando la propria giurisprudenza precedente sulla parallela Convenzione di Bruxelles, chiarendo quindi che presupposti per poter chiamare in giudizio in Italia un soggetto non residente per ragioni di connessione sono: la presenza del vincolo di connessione delle domande sin dal momento del loro esperimento e l’esistenza di un interesse ad una istruttoria ed una pronuncia giudiziale unica, che argini il rischio di decisioni incompatibili. Mentre non sarebbe necessario effettuare ulteriori verifiche sul forum shopping e cioè se le domande siano state presentate “esclusivamente allo scopo di sottrarre uno dei convenuti ai giudici dello Stato membro in cui egli ha il suo domicilio”. Prevalente pertanto è la ratio della opportunità di trattare e decidere congiuntamente cause legate da vincoli di connessione soggettiva e/o oggettiva per evitare situazioni incompatibili, qualora le cause fossero trattate separatamente. Interessante in ultimo anche l’argomentazione che ha portato ad escludere la possibilità di fondare la giurisdizione adita sulla base dell’art. 5 della citata Convenzione di Lugano, in base al luogo in cui è avvenuto l’evento dannoso. Nei motivi del ricorso per cassazione infatti, si indicava solo l’erronea applicazione dell’art. 6 della Convenzione di Lugano e non si riprendevano più le censure sotto l’altro profilo dell’Art. 5, pertanto la Cassazione ,“in presenza di una duplice ratio, di cui anche una sola inadeguatamente attaccata (Art. 6)”, atteso che questa risultasse idonea da sola a sorreggere la decisione e che l’omessa impugnazione dell’altra (Art. 5) fosse da valutare quale difetto di interesse, ha tralasciato la trattazione della censura non ripresa nel ricorso in cassazione.

Si osserva quindi ancora una volta quanto sia importante avere dimestichezza con le questioni di giurisdizione: lo studio A&R Avvocati Rechtsanwälte, con la propria esperienza pluriennale, volentieri si rende disponibile ad assisterVi in simili questioni transfrontalieri di notevole delicatezza.

L’entrata in vigore del D.L.vo n. 198/2021 in materia di pratiche commerciali sleali nella filiera agricola e alimentare

Il 15 dicembre 2021 sono entrate in vigore le nuove disposizioni afferenti alle pratiche commerciali sleali in attuazione della Direttiva UE 2019/633 del Parlamento europeo e del Consiglio nonché attuativo dell’art. 7 della L. n. 53/2001 in materia di commercializzazione dei prodotti agricoli e alimentari.

Le nuove disposizioni si applicano ai contratti di cessione “business to business” dei prodotti agricoli e alimentari a decorrere da tale data. Invece, per quanto riguarda i contratti già in essere viene concesso un termine di sei mesi per permettere di renderli conformi alle disposizioni del decreto.

In primo luogo, il D. L.vo 198/2021 definisce il concetto di “prodotti agricoli e alimentari deperibili”. Invero, in precedenza essi venivano definiti dall’art. 62 del D.L. n. 1/2012. Tuttavia, il presente decreto va ad abrogare la precedente definizione adottando quella riportata dalla Direttiva UE 2019/633 secondo cui: “’prodotti agricoli e alimentari deperibili’: (sono) i prodotti agricoli e alimentari che per loro natura o nella fase della loro trasformazione potrebbero diventare inadatti alla vendita entro 30 giorni dalla raccolta, produzione o trasformazione”. Sotto il profilo delle disposizioni contrattuali è necessario rispettare i principi di trasparenza, correttezza, proporzionalità e reciproca corrispettività delle prestazioni in tutte le fasi contrattuali. A tal fine, il decreto impone di formulare obbligatoriamente i contratti di cessione per iscritto. In particolare, si evidenzia l’aspetto afferente alla statuizione del prezzo dei prodotti agricoli e alimentari. esso deve essere stabilito per iscritto a maggior tutela del piccolo produttore. A tal scopo, forme considerate idonee a contenere detto tipo di pattuizione sono anche i documenti di trasporto, di consegna, fatture e ordini di acquisto. Invece, con riferimento alla durata dell’accordo, essa non può essere inferiore ai dodici mesi.

Poi, all’art. 4 e 5 il decreto riporta un elenco di pratiche sleali. Le pratiche elencate all’art. 4 si possono suddividere in due tipi: le pratiche sleali vietate ergo tassativamente considerate sleali (ad es. il versamento del prezzo dopo trenta giorni dalla consegna per i beni deperibili ovvero dopo sessanta giorni per quelli non deperibili) e in quelle considerate sleali se non espressamente pattuite in precedenza, per iscritto, nel contratto di cessione (ad es. la restituzione dei prodotti agricoli rimasti invenduti senza corresponsione del prezzo per tali prodotti o il loro smaltimento). All’art. 5 sono invece riportate ulteriori condotte scorrette di cui alcune coincidono con quanto già disciplinato dall’oggi abrogato art. 62 del D.L. n. 1/2012.

Il decreto in esame pone infine una norma imperativa a disciplina delle vendite sottocosto dei prodotti agricoli ed alimentari freschi e deperibili. Esse sono consentite solamente nel caso in cui il prodotto invenduto si trovi a rischio di deperibilità ovvero in caso di operazioni commerciali già programmate in forma scritta tra le parti. Vige altresì il divieto di far ricadere sullo stesso fornitore le conseguenze economiche che discendessero da un eventuale deperimento o perdita dei prodotti agricoli e alimentari. In caso di violazione di questa norma, si avrà dunque una sostituzione di diritto ai sensi dell’art. 1339 c.c. con il prezzo risultante dalle fatture d’acquisto o quello calcolato sui costi medi di produzione. L’autorità di contrasto deputata al controllo e all’irrogazione di sanzioni in caso di rilevazione di violazioni del decreto in esame è l’ICQRF che può avvalersi dell’Arma dei Carabinieri oltre che della Guardia di Finanza. Permangono comunque le funzioni e le competenze dell’AGCM già previste dalla legge vigente (cfr. art. 18 D. L.vo n. 206/2005).

L’introduzione nel nostro ordinamento della normativa in esame, sebbene diretta ad una maggior tutela del contraente debole (il piccolo fornitore) e ad un principio di certezza dei rapporti giuridici, si può ritenere presenti anche alcuni aspetti di criticità, che verranno con buona probabilità disvelati in sede di controllo e successiva irrogazione delle relative sanzioni. Tra questi, è possibile supporre che le aziende acquirenti medio grandi dovranno affrontare una pressoché totale riorganizzazione dei propri contratti e processi interni di gestione degli stessi nonché dei pagamenti che dovranno obbligatoriamente intervenire entro trenta ovvero sessanta giorni dalla consegna, a seconda del tipo di prodotto oggetto di cessione.

A tal proposito, in totale assenza di giurisprudenza nonché di circolari esplicative o linee guida, è consigliabile adattare i propri processi interni nonché gli stipulandi contratti con i fornitori alla nuova normativa.

Detto ciò, suggeriamo di ricorrere all’ausilio di esperti del settore, come i professionisti dello studio A&R Avvocati Avvocati Rechtsanwälte, i quali grazie ad una pluriennale esperienza nell’ambito agroalimentare, Vi potranno fornire soluzioni su misura, al fine di adattare al meglio le nuove disposizioni alle Vostre esigenze aziendali.

Avv. Diana Tommasin

Condizioni generali di contratto nei rapporti internazionali: confronto tra Italia e Germania.

Le differenze ordinamentali in materia di condizioni generali rappresentano uno dei punti di maggior dibattito e criticità nei rapporti commerciali internazionali, soprattutto a fronte di un panorama giurisprudenziale ancora incerto e non uniforme. In un simile contesto, una fondamentale importanza assume la conoscenza del sistema giuridico con cui ci si raffronta e le comuni pratiche internazionali in materia.

Le condizioni generali sono termini contrattuali formulati in modo tale da trovare applicazione generalizzata in un numero indeterminato di casi. Il ricorso a tale strumento è molto diffuso nelle pratiche commerciali, soprattutto internazionali, attesi i molteplici vantaggi che lo stesso offre: redazione standardizzata, determinazioni delle condizioni in via del tutto unilaterale e soprattutto, possibilità di introduzione di clausole idonee a derogare in senso peggiorativo alle norme di legge poste a tutela della controparte contrattuale (c.d. clausole vessatorie)

Nell’ambito dei rapporti internazionali, l’impiego delle condizioni generali di contratto può generare situazioni di dubbio e smarrimento, a causa soprattutto dei differenti meccanismi previsti dai diversi sistemi ordinamentali coinvolti e applicabili.

Nel caso della Germania, le condizioni generali di contratto per essere considerate valide ed applicabili nello specifico rapporto contrattuale non necessitano di requisiti formali stringenti come quelli previsti dal diritto italiano.

In linea di massima, soprattutto nei rapporti tra imprenditori, affinché le condizioni generali trovino efficacia è necessario che il sottoscrivente sia messo nella possibilità di conoscere il contenuto delle condizioni stesse, non essendo previsto un obbligo generale di invio prima o al momento della conclusione del contratto, salvo che in alcuni specifici casi.

Il diritto tedesco, inoltre, consente altresì, sempre nelle relazioni tra imprenditori, di rinunciare alla presa visione delle condizioni generali e ciò può essere previsto generalmente in contratto. Ciò significa che, con la sottoscrizione del contratto, si potrebbe addirittura correre il rischio di trovarsi applicate delle condizioni di cui non si conosce affatto il contenuto e nulla si potrebbe opporre in merito, poiché in sede di conclusione del contratto si è rinunciato a tale possibilità, con assunzione di tutti i rischi derivanti.

Inoltre, pur se generalmente previsto l’obbligo di mettere nella condizione di conoscenza delle condizioni generali di contratto al massimo al momento della conclusione dello stesso, in alcuni casi, soprattutto a causa della complessità dell’operazione economica posta in essere, queste possono essere validamente richiamate anche in un momento successivo, come ad esempio in una lettera commerciale di conferma.

A ciò, si aggiunga che le c.d. clausole vessatorie, in Germania non devono essere necessariamente approvate con doppia sottoscrizione. Tale meccanismo, presente in Italia, consente un maggior focus sulla deroga che si sta operando, soprattutto considerato il regime di sfavore che da ciò deriva e dunque, favorisce anche, nel caso, una trattativa sul punto prima della sottoscrizione del contratto. Invece, in Germania, le clausole vessatorie rientrano nel normale corpus contrattuale e un non professionista del settore, incautamente e senza aver avuto l’opportunità di prenderne piena contezza potrebbe rinunciare ad importanti tutele giuridiche.

Pertanto, nell’ambito delle relazioni internazionali, soprattutto tra Italia e Germania, si raccomanda vivamente di prestare particolare attenzione alle condizioni generali di contratto. Sul punto, si consiglia di rivolgersi a professionisti del settore, con esperienza maturata nel settore in entrambi i sistemi giuridici di riferimento, sia quello italiano che quello tedesco.

Il nostro studio A&R Avvocati & Rechtsanwälte vanta una consolidata esperienza in materia, soprattutto nei rapporti commerciali italo-tedeschi, ed i nostri professionisti saranno in grado di assistervi in ogni passo necessario per la realizzazione dei vostri progetti.

Avv. Valentina Preta

Indennità per il distributore in Germania e possibili influenze sul diritto italiano

Il mercato attuale ricorre sempre più spesso ai c.d. contratti di distribuzione, strumento efficace e pratico per l’espansione di rapporti commerciali soprattutto a livello internazionale. Il ricorso a tale istituto ha comportato anche il configurarsi di una serie di questioni, la cui rilevanza appare quantomai attuale, soprattutto in forza dei diversi scenari giurisprudenziali configurabili. Una delle questioni sicuramente di maggior interesse è costituita dal riconoscimento del diritto all’indennità per il concessionario, a seguito di cessazione del rapporto di distribuzione, già operato dalla Giurisprudenza tedesca sulla scorta di un parallelismo con il contratto di agenzia. 

Le due fattispecie, distribuzione ed agenzia, infatti, pur se a livello teorico distinte tra loro, a livello fattuale e sostanziale possono estrinsecarsi in maniera molto simile sino a giungere ad un’equiparazione delle discipline giuridiche. Per quanto concerne il piano concettuale, il contratto di distribuzione è quel negozio con il quale un operatore economico si impegna a promuovere la vendita dei prodotti forniti da un produttore, per ottenerne opportunità di guadagno. Tale specifico negozio si caratterizza per essere costituito da una serie di rapporti di compravendita, in quanto il concessionario acquista i beni dal produttore al fine di ottenere il guadagno dovuto dalla differenza fra il prezzo di vendita e quello di acquisto. In sostanza, il contratto di distribuzione parrebbe fondarsi, almeno in apparenza, rapporti autonomi.

Di contro, invece, nel contratto di agenzia, l’agente assume stabilmente l’incarico di promuovere, per conto del “preponente”, contro retribuzione, la conclusione di contratti di zona determinata.  In questo caso, il rapporto tra le parti, pur non essendo di natura subordinata, non può neppure definirsi di natura autonoma. Ed infatti, nell’ipotesi del contratto di agenzia l’agente, soprattutto ove si tratti di prestazione di opera continuativa e coordinata, pur non trovandosi in una posizione di dipendenza verso il preponente meno forte rispetto a quella del lavoratore subordinato, di certo si trova in una più vincolante rispetto a quella dei rapporti autonomi, secondo il modello della parasubordinazione. Da ciò, discendono diverse conseguenze sul piano giuridica, tra cui l’indennità di cui all’art. 1751 c.c., così come modificata in seguito all’entrata in vigore della Direttiva comunitaria 86/653/CEE del 18 dicembre 1986, dovuta ogniqualvolta l’agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti.

Sul versante fattuale e sostanziale, invece, la realtà quotidiana mostra molto spesso come la situazione di fatto sottostante al rapporto di distribuzione non è di per sé molto diversa da quella di un contratto di agenzia. Ciò accade soprattutto nell’ipotesi in cui il concessionario abbia strettamente legato la propria attività professionale all’esistenza del contratto di distribuzione, allineando la propria attività con quella del produttore o del fornitore, a volte con notevoli mezzi di capitale proprio, assicurando altresì per un significativo lasso di tempo il proprio fatturato, ma non da ultimo anche quello del produttore, acquisendo nuovi clienti. In situazioni simili, a ben vedere, il contratto di distribuzione di per sé non pare più fondato su rapporti sostanzialmente autonomi, ma su quel modello ibrido di rapporto parasubordinato in cui rientra proprio il contratto di agenzia.

Sul punto, la Giurisprudenza tedesca, atteso proprio il parallelismo non solo fattuale, bensì anche sostanziale tra le situazioni ed i rapporti sottostanti, si è fatta interprete di un orientamento divergente rispetto a quella italiana.

Ed infatti, i Giudici teutonici sono giunti a riconoscere il diritto all’indennità anche per il distributore nelle medesime ipotesi in cui questa viene riconosciuta all’agente ai sensi del § 89b HGB (codice commerciale tedesco), come promunciato esemplariamente con sentenza della Corte suprema federale, del 13 gennaio 2010, VIII ZR 25/08.

A tal proposito, la Giurisprudenza consolidata della Corte suprema federale, si è espressa nel senso che la disposizione del § 89b HGB debba trovare applicazione anche nel caso del distributore,  se il rapporto giuridico tra lo stesso e il produttore o il fornitore non è limitato a un semplice rapporto acquirente-venditore, ma il distributoreera integrato nell’organizzazione di approccio del produttore o del fornitore in modo tale, che doveva svolgere compiti economicamente paragonabili a quelli di un agente commerciale in misura considerevole e, d’altra parte, il produttore è obbligato a trasferire la sua base di clienti al produttore o fornitore in modo che quest’ultimo possa immediatamente e senza ulteriori indugi utilizzare i vantaggi della base di clienti alla fine del contratto.

I requisiti per la sussistenza del diritto all’indennità in parola, dunque, sono principalmente due: l’integrazione nell’organizzazione delle vendite e l’acquisizione della base dei clienti.

Per quanto concerne il primo, esso viene riconosciuto anche sulla scorta di una mera presunzione, soprattutto ove gli obblighi del concessionario corrispondano almeno in parte a quelli di un agente, specialmente nel caso in cui il concessionario abbia altresì assunto ulteriori obblighi aggiuntivi di promozione delle vendite.

In merito all’acquisizione della base dei clienti, essa consiste nel beneficio che il produttore trae dall’attività del concessionario una volta venuto meno il rapporto di distribuzione. A tal proposito, la Giurisprudenza tedesca tende a riconoscere la sussistenza di tale requisito ove il concessionario sia stato tenuto, in forza delle disposizioni contrattuali, ovvero di rapporti di cortesia e prassi tra le parti, a comunicare i dati dei propri clienti al produttore.

Una volta accertata la sussistenza dei predetti requisiti, l’indennità riconoscibile in capo al distributore viene determinata alla stregua delle disposizioni relative al contratto di agenzia ai sensi del § 89b (3) HGB, ossia sulla base delle cifre di fatturato dell’ultimo anno contrattuale prima della cessazione del rapporto contrattuale.

Il panorama sopra descritto configuratosi nel diritto tedesco, non può però dirsi uno scenario a sé stante, in quanto potenzialmente riconducibile anche al sistema ordinamentale italiano, soprattutto considerato che la Direttiva comunitaria 86/653/CEE del 18 dicembre 1986 e, dunque, l’art. 1751 c.c., sono plasmati proprio sulla norma di cui al § 89b HGB. Ed infatti, i regimi di indennità di cui alla Direttiva sono stati modellati proprio sulla scorta del modello legislativo di cui al § 89b HGB, oltre che a quello francese. Attesa tale circostanza, non pare del tutto peregrina l’ipotesi di uno sviluppo anche del diritto italiano in tal senso, con tutte le conseguenze che ne derivano.

In materia di contratti di distribuzione, dunque, si rivela di fondamentale importanza l’ampia conoscenza del sistema non solo italiana, ma altresì europeo, nonché tedesco. Infatti, proprio muovendo da quest’ultimo, si possono immaginare diversi scenari, nonché rimedi e tutele all’uopo prospettabili.

A tal fine, si suggerisce di ricorrere, dato anche il forte impatto economico di una possibile indennità di fine rapporto, all’assistenza di esperti del settore, proprio come i professionisti dello studio A&R Avvocati Rechtsanwälte, in grado di cogliere le diverse sfumature dei sistemi giuridici coinvolti, nonché i molteplici parallelismi interpretativi, elementi grazie ai quali muoversi con maggior certezza nel vasto campo dei contratti di distribuzione.

Avv. Valentina Preta

I contratti internazionali al tempo del COVID: causa di forza maggiore?

La Pandemia in atto, con la sua seconda ondata e il contesto generalizzato di incertezza che regna sovrano in tutto il mondo e soprattutto in Europa, rischia di creare non pochi problemi agli scambi e alla contrattualistica internazionali, in misura almeno equivalente a quelli già registrati nel marzo scorso, se non più gravi.

La possibilità che lo scenario verificatosi già ad inizio anno si ripeta anche nel prossimo futuro diviene sempre più concreta, atteso l’esponenziale aumento del numero di contagi e le decisioni adottate dalla maggior parte dei governi nazionali, i quali continuano a riservarsi di ricorrere a nuovi lockdown generalizzati, ove necessario. I rischi connessi ad un simile scenario aumentano se si considera che ad una chiusura generalizzata nel proprio paese, potrebbe invece corrispondere un mantenimento della normale attività produttiva in altri. In tale caso, oltre alle gravi conseguenze causate da un arresto produttivo, potrebbero aggiungersi altresì le pretese dei partner commerciali esteri, i quali, anche in assenza di provvedimenti governativi nei propri paesi hanno dovuto ridurre, se non interrompere, la normale attività produttiva a causa dell’impossibilità di ricevere la materia prima necessaria. In tal caso, si ripresenterebbe uno scenario proprio come quello del marzo scorso.

Come ben si ricorda, infatti, all’epoca moltissime aziende sono state costrette a chiudere da un giorno all’altro in forza di continui provvedimenti governativi ed una volta terminata questa prima fase, oltre alle gravi ripercussioni economiche, a minacciare la stabilità dell’intero sistema produttivo sono intervenute le molteplici richieste di risarcimento danni dovuti all’impossibilità per le aziende in funzione di continuare la propria attività a causa del blocco subito dalla supply chain. Difronte ad un simile quadro, le gravi ripercussioni economiche che si sarebbero originate, ove riconosciute responsabilità in capo alle aziende impossibilitate ad adempiere per via delle disposizioni governative, sono state evitare ricorrendo a due principali istituti giuridici: il caso fortuito e l’eccessiva onerosità sopravvenuta.

Il primo, infatti, ha trovato applicazione in tutti quei casi in cui una l’esecuzione di una prestazione era divenuta impossibile a causa dei provvedimenti governativi con i quali si sono imposte chiusure ed il secondo ove le prestazioni, pur se non impossibili, di per sé erano divenute talmente gravose da rendere non più sostenibile l’adempimento delle stesse. Entrambi gli istituiti in parola hanno contribuito al mantenimento della stabilità delle aziende maggiormente colpite dalle conseguenze dei provvedimenti adottati, evitando alle stesse di dover corrispondere ingenti risarcimenti danni così come da previsioni contrattuali, ovvero secondo le normali logiche del diritto. Il ricorso a tali strumenti è stato possibile grazie alla natura degli stessi, i quali infatti consentono di evitare il sorgere delle normali conseguenze dovute all’inadempimento, nel caso in cui si verifichi un evento straordinario, imprevedibile e fuori dal controllo delle parti. Dunque, elemento comune per l’operatività degli istituti giuridici in esame è proprio quello dell’imprevedibilità.

Ciò detto, eventuali ed ulteriori provvedimenti di chiusure generalizzate possano attualmente ancora definirsi imprevedibili?

Dalla risposta che si fornisce a questa domanda, discendono anche importanti e rilevanti conseguenze sul piano giuridico e, soprattutto, di tutela per il buon funzionamento degli scambi e della contrattualistica internazionali. Si pensi al caso in cui un’azienda italiana, avente rapporti con altre società tedesche, si veda nuovamente costretta a chiudere in forza dei nuovi provvedimenti ministeriali, mentre quella estera, invece, no. Da tale situazione potrebbe derivare un’impossibilità ad adempiere da parte dell’azienda italiana, di per sé fonte di conseguenze sul piano sia della responsabilità contrattuale che extracontrattuale.

Potrebbe in questo caso l’azienda italiana ricorrere all’istituto della forza maggiore o a quello dell’eccessiva onerosità sopravvenuta?

Per rispondere a questa domanda, considerate le osservazioni di cui sopra, bisogna chiedersi: una chiusura delle aziende era del tutto imprevedibile al momento della sottoscrizione e/o dell’esecuzione del contratto? Con ragionevole certezza, la domanda appena formulata non può che trovare una risposta negativa. A fronte di ciò, ben si comprende come il rischio per gli operatori nel settore potrebbe essere proprio quello di vedersi riconoscere una vera e propria responsabilità da inadempimento. Invero, atteso che l’evento in parola non può considerarsi quale del tutto imprevedibile, considerato quanto già accaduto, le parti, ben avrebbero potuto adeguare le disposizioni contrattuali al fine di prevedere obblighi, conseguenze ed esclusioni di responsabilità nell’ipotesi di nuovi provvedimenti governativi di chiusura generale dovuti ad una seconda ondata pandemica. Un simile discorso poi, si ritiene possa valere non solo per i contratti internazionali conclusi attualmente, ma anche per quelli precedenti alla comparsa del COVID 19 e non opportunamente adeguati ai nuovi scenari prospettabili. Tutto ciò considerato, dunque, la necessità di tutelare i traffici commerciali internazionali della propria azienda appare in questo preciso momento storico di fondamentale importanza, atteso che gli istituti giuridici sino ad ora impiegati potrebbero non costituire più una utile valvola di salvezza.

Innanzi a tali rilevanti problematiche, quali strumenti offre il diritto per garantire comunque una tutela simile o anche maggiore rispetto a quella in precedenza fornita dalla forza maggiore e dalla eccessiva onerosità sopravvenuta? Sul punto, bisogna precisare che questo è un terreno del tutto nuovo anche per gli operatori del diritto, i quali sono chiamati a confrontarsi con una delle più importanti sfide dell’ultimo secolo, impiegando non solo strumenti già esistenti, ma elaborandone anche di nuovi, onde garantire la maggior tutela e certezza possibile, valutata per la singolarità e peculiarità del caso di specie.

E dunque, ci si chiede: quali strumenti possono essere impiegati nell’ambito dei traffici internazionali in un contesto di esposizione ad alto rischio come quello attuale?

In linea di massima, una valida soluzione può essere garantita proprio in sede contrattuale, in caso di nuove intese, tramite clausole e condizioni elaborate ad hoc, ovvero con modifiche e/o integrazione dei negozi già in essere, grazie alle quali tenere in considerazione tutti i possibili scenari prevedibili. Per l’ipotesi di totale impossibilità sopravvenuta, ad esempio, le peculiarità del caso di specie, nonché altre ed eventuali circostanze potranno essere convogliate in specifiche clausole contrattuali.  Queste dovranno in primo luogo limitare l’oggetto, ossia specificare a quali eventi e circostanze le parti intendono dare rilevanza per l’operatività della clausola stessa, nonché obblighi di tempestiva comunicazione secondo le forme ritenute più opportune non solo dell’evento previsto e concretizzatosi, ma anche delle obbligazioni il cui adempimento è divenuto impossibile, con l’esclusione specifica delle circostanze a cui non si vuole dare rilievo per l’operatività della clausola stessa. A seconda della tipologia contrattuale poi, potrebbe altresì prevedersi la sospensione dei termini per tutta la durata dell’evento considerato ed in ultima istanza anche la facoltà di recesso.

Nel caso di eccessiva onerosità sopravvenuta, invece, le parti ben potrebbero concordare una c.d. clausola di hardship, ovvero modificarla ove già presente, con la quale prevedere l’obbligo di rinegoziare i termini dell’accordo, ed in caso di esito infruttuoso di tali trattative, la risoluzione del contratto stesso.

Le ipotesi di cui sopra costituiscono di certo un buon punto dal quale iniziare poi a sviluppare l’architettura contrattuale, con tutte le sovrastrutture necessarie, a seconda delle diverse e concrete esigenze, ma queste necessitano sempre e comunque di essere elaborare in maniera attenta e approfondita, in modo da adattarle alla fisionomia del caso di specie.

A tal fine, un utile ausilio può essere costituito dall’assistenza di un professionista nel settore della contrattualistica internazionale, la cui esperienza e professionalità ben possono costituire validi strumenti per accompagnare in piena sicurezza l’attività della Vostra azienda.

 

A cura di: Avv. Valentina Preta

Novità in tema di evocazione

Il fenomeno dell’evocazione è ben conosciuto da produttori beneficiari di denominazione d’origine registrata che, per mezzo di consorzi a protezione di DOP ed IGP, hanno il difficile compito di controllare e denunciare eventuali comportamenti scorretti dei produttori concorrenti che imitino, usurpino od evochino i prodotti a denominazione d’origine, senza rispettare il disciplinare che li regolamenta.

Nello specifico, ai sensi del Reg. UE 1153/2012, con il termine evocazione si intende la pratica commerciale scorretta capace di suscitare nel consumatore l’idea che quel prodotto abbia le stesse caratteristiche e qualità del prodotto a denominazione registrata o che sia esso stesso prodotto a denominazione registrata. La repressione di “pratiche evocative” ha dunque la finalità di tutelare la qualità dei prodotti a denominazione d’origine, tutelare i produttori soggetti a rigidi disciplinari a salvaguardia della qualità dei loro prodotti nonché a tutelare i consumatori che si aspettano di comprare un prodotto qualitativamente superiore ovvero oggetto di particolari procedimenti produttivi.

L’ordinamento interno con il d.lgs. n. 297/2004 e quello comunitario con il Reg. CE n. 510/2006 poi sostituito dal Reg. UE 1153/2012 e il Reg. CE 110/2008 nonché la giurisprudenza nazionale ed europea hanno contribuito nel tempo a delineare le definizioni e la casistica entro cui ricomprendere il concetto di evocazione. Su questo tema, è stata recentemente introdotta una novità con la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 02 maggio 2019, relativa alla causa C- 614/17, sul prodotto caseario “Queso Manchego”. Detta pronuncia ha esteso il concetto di evocazione non più solamente a segni grafici richiamanti il prodotto protetto da denominazione d’origine ovvero denominazioni con prefissi, suffissi, pronuncia fonetica simile a quelle protette, bensì anche a segni grafici in etichetta riconducibili alla regione associata alla denominazione, ancorché ad utilizzarli sia un produttore della medesima regione che, però, non benefici della denominazione d’origine registrata.

La causa veniva instaurata su ricorso al giudice spagnolo ad opera della Fondazione Queso Manchego, organismo incaricato della gestione e della protezione della DOP “queso manchego”, contro la società Impresa Quesera Cuquerella (ICQ). Quest’ultima utilizzava etichette per identificare e commercializzare i formaggi «Adarga de Oro», «Super Rocinante» e «Rocinante», che richiamavano la zona della Mancha ove essi venivano prodotti. Tuttavia, la Fondazione Queso Manchego, con sede proprio nella regione della Mancha, sosteneva che le etichette di tali formaggi (non protetti dalla DOP “queso manchego”) nonché l’utilizzo dei termini «Quesos Rocinante» implicassero una violazione della suddetta DOP. La Fondazione sosteneva che tali etichette e tali termini costituissero un’evocazione illegittima di detta DOP, ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 1, lettera b), del Reg. CE n. 510/2006 che stabiliva: “qualsiasi usurpazione, imitazione o evocazione, anche se l’origine vera del prodotto è indicata o se la denominazione protetta è una traduzione o è accompagnata da espressioni quali ‘genere’, ‘tipo’, ‘metodo’, ‘alla maniera’, ‘imitazione’ o simili”.

Dopo varie vicissitudini processuali, la causa veniva esaminata dal Tribunal Supremo (la Corte Suprema spagnola) che sospendeva il procedimento sottoponendo alla Corte di Giustizia Dell’Unione Europea tre questioni pregiudiziali. Con la prima questione si chiedeva alla Corte di Lussemburgo se, in base all’articolo sopra riportato, oltre a denominazioni che presentassero somiglianza visiva, fonetica e concettuale con la DOP, anche segni figurativi (immagini) fossero idonei a costituire evocazione della DOP e pertanto lesivi della stessa. Con la seconda questione interrogava la Corte sulla possibilità che segni richiamanti la regione cui è associata la DOP costituissero evocazione, se utilizzati da parte di produttori operanti nella medesima regione della denominazione d’origine ma i cui prodotti, sebbene simili a quelli protetti dalla denominazione d’origine, ne fossero esclusi. Invece, l’ultima questione verteva sui parametri da utilizzare per identificare il consumatore medio normalmente informato, in quanto il giudice nazionale deve tenerne in considerazione le conoscenze nel determinare la sussistenza dell’evocazione.

La Corte di Giustizia, introducendo un elemento di novità rispetto alla giurisprudenza sino ad allora costante, si pronunciava in senso affermativo con riguardo alla prima questione. Invero, secondo la Corte, ai sensi dell’art. 13 del Reg. 510/2006, i beni beneficianti di denominazione d’origine sono protetti da qualsiasi tipologia di evocazione. Di conseguenza, non è possibile tipizzare i casi di evocazione ammessa ma, nell’analisi della fattispecie, il giudice nazionale adito dovrà accertare se l’elemento sospetto di evocazione, a prescindere dalla sua natura, possa richiamare direttamente nella mente del consumatore, come immagine di riferimento, il prodotto che beneficia della denominazione d’origine che si assume lesa.

Ciò che rileva è dunque il carattere falso e ingannevole delle varie indicazioni che possono essere fornite per “sviare” il consumatore e non, invece, gli elementi da considerare per determinare l’esistenza di siffatte indicazioni false e ingannevoli, posto che, appunto, la formulazione del testo regolamentare è volutamente generica, proprio al fine di ricomprendere qualsiasi modalità idonea a dar luogo ad evocazione.

Inoltre, il giudice europeo ha effettuato un ulteriore passo avanti nella tutela delle denominazioni d’origine. Infatti, rispondendo al secondo quesito posto dalla Suprema Corte spagnola, la Corte di Giustizia ha affermato il principio per cui la formulazione generica della disposizione regolamentare sull’evocazione impedisce di operare deroghe per i produttori di prodotti simili non ricompresi nella denominazione, ancorché operanti nel medesimo territorio. La Corte specifica che il giudice nazionale deve andare oltre l’elemento della provenienza del produttore e valutare concretamente caso per caso, sulla scorta dell’insieme dei segni figurativi e denominativi, la sussistenza del nesso diretto e univoco tra gli elementi controversi e la denominazione registrata. In questo caso, la Corte opera un rafforzamento di tutela nei confronti delle denominazioni d’origine, in quanto non ancora più la protezione solamente ai parametri di similarità del prodotto in una prospettiva di concetto, dicitura, fonetica ma, addirittura, il richiamo improprio della regione geografica cui è legata la denominazione geografica è oggi idonea a costituire una pratica lesiva nei confronti della denominazione protetta.

Infine, in merito all’ultima questione riguardante la determinazione delle caratteristiche del consumatore, è interessante osservare come la Corte si avvalga per analogia di una disposizione prevista dal Reg. CE 110/2008, emanato a protezione delle indicazioni geografiche delle bevande spiritose (bevande alcoliche), che sono dotate di una disciplina particolare, seppure molto simile a quella prevista per gli alimenti. La novità nella concezione di consumatore risiede nel fatto che il giudice nazionale nel valutare l’”evocatività” degli elementi controversi, dovrà utilizzare come parametro le conoscenze del consumatore medio europeo, inteso quale cittadino di un qualsiasi stato membro e non le normali conoscenze del cittadino dello stato membro in cui ha sede la denominazione d’origine. Così facendo, la Corte di Giustizia ha provveduto a tutelare in modo più pregnante l’affidamento dei consumatori nei confronti delle informazioni che gli vengono fornite.

In conclusione, questa recente pronuncia apre nuove prospettive in tema di evocazione che dovranno essere tenute in considerazione in primis dalle imprese operanti nel settore. Ad esempio, nel lanciare sul mercato un nuovo prodotto sarà necessario verificare non solo il nome e/o i segni grafici in etichetta tali che non richiamino prodotti protetti da denominazioni d’origine, ma anche immagini o loghi che non richiamino una regione associata ad una denominazione d’origine, ancorché il produttore operi in tale specifica zona ma non rispetti il disciplinare della denominazione d’origine. Pertanto, le scelte di marketing aziendali sul tema dovranno essere preliminarmente vagliate anche a livello giuridico onde verificarne l’ammissibilità e la legittimità.

Lo studio legale A & R Avvocati Rechtsanwälte rimane a Vostra disposizione per la consulenza giuridica circa tutti gli aspetti della tutela dei Vostri prodotti e relativi marchi e/o denominazioni corrette per fornirvi un’assistenza all around nel settore.

Avv. Diana Tommasin

Vendita internazionale di merci: attenzione alla corretta formulazione contrattuale.

Molto spesso assistiamo le aziende in diverse problematiche relative alla compravendita di beni mobili a carattere internazionale, vale a dire quelle vendite che intercorrono tra compratore e venditore professionale con sede d‘affari in due diversi paesi. Quasi di regola le aziende operano, anche a livello intenazionale, con il solo meccanismo degli ordini da parte del cliente, della conferma degli ordini e delle consegne senza avere la consapevolezza di stipulare in tal modo dei contratti veri e propri di vendita talvolta non adeguatamente disciplinati. In caso infatti, per esempio, di difetti delle merci consegnate sorgono problemi relativi in particolare alla disciplina giuridica applicabile ai contratti in tal modo conclusi.

Per tali motivi appare etremamente importante che le aziende abbiano consapevolezza della necesstà di regolamentare detti rapporti, tramite accordi quadro, in caso di vendite reiterate nel tempo, tramite condizioni generali di vendita accettate dal proprio partner contrattuale o altro a seconda delle diverse esigenze nelle singole occasioni. Un aspetto particolarmente importante da disciplinare è senza dubbio la legge da applicare al rapporto di vendita, che ben potrà essere selezionata dalle parti in via contrattuale. Tuttavia una corretta formulazione di tali clausole è di particolare importanza. Segnaliamo a tal proposito una curiosa sentenza della Corte di Appello di Monaco di Baviera (OLG München – 7. Zivilsenat – del 02.10.2013 – 7 U 3837/12) che – proprio in un caso di vendita internazionale – ha denegato l’applicazione della disciplina uniforme della Convenzione di Vienna del 1980 sulla compravendita internazionale di beni mobili (CISG) con una motivazione succinta, ma divergente dalla ormai consolidata giurisprudenza internazionale sia di merito che di legittimità sul punto. Le due aziende in lite, appartenevano a due Stati differenti e oggetto della lite era il mancato pagamento di forniture di concentrato di succo di fragole. La parte convenuta (compratrice) intendeva infatti compensare quanto da essa dovuto con le proprie pretese di risarcimento danni in correlazione alla mancata tempestiva fornitura di detto concentrato di succo di fragola, in particolare essa chiedeva di compensare sulle somme dovute la differenza tra il prezzo dovuto contrattualmente ed il prezzo di mercato effettivo al momento e nel luogo della fornitura effettuata successivamente. Le parti avevano pattuito lapidariamente il foro competente in Monaco di Baviera ed il diritto applicabile quello tedesco („Gerichtsstand München. Deutsches Recht“). Nella fase di appello, tra i diversi motivi di impugnazione, occorre qui segnalare che la parte attrice riteneva che nella prima istanza i giudici la avessero – in modo non corretto – condannata ad adempiere alla propria fornitura sulla base dell’applicazione delle sole norme di legge tedesca (BGB-HGB). In realtà, essendo la vendita intercorsa tra due soggetti con sede di affari in stati differenti, ad essa si sarebbe dovuta applicare più correttamente la Convenzione di Vienna del 1980 sulla vendita internazionale di beni mobili, sulla base della quale parte attrice avrebbe ben potuto ai sensi dell’art 64, comma I lett.a) dichiarare risolto il contratto per il ricorrere di un inadempimento essenziale della controparte. I giudici di appello confermavano l’applicazione al caso concreto delle sole norme di legge tedesca (BGB e HGB) ritenendo che le norme di garanzia della CISG ivi non dovessero trovare applicazione perchè „le parti stipulavano in entrambi i contratti in esame, espressamente e in modo inequivoco l‘applicazione del diritto tedesco. Ciò comporterebbe l’esclusione della Convenzione di Vienna del 1980“. Ora tale motivazione desta particolare stupore perchè la giurisprudenza maggioritaria sia tedesca (tra tutte BGH, IHR 2010,216 e BGH, NJW 1997, 3309) che italiana (in particolare Tribunale di Forlì dell’11.12.2008, disponibile in tedesco anche in IHR 2013, 197) che in generale internazionale ritiene un automatismo l’applicazione della CISG laddove le parti abbiano pattuito l’applicazione di un diritto nazionale di uno degli stati aderenti alla Convenzione. Per usare la argomentazione della corte di Forlì detto automatismo trova fondamento nella natura stessa della Convenzione di Vienna, quale convenzione di diritto materiale uniforme con un ambito di applicazione „speciale“ rispetto alla normativa generale nazionale sulla vendita. Detta specialità ne determina la prevalenza sulle altre norme generali disciplinate dal diritto nazionale, comunque individuato come applicabile. In sintesi tutte le volte in cui le parti internazionali prevedono un diritto applicabile nazionale al loro rapporto e tale diritto è quello di uno Stato contraente la Convenzione che la ha recepita come diritto uniforme, quest’ultima è parte di quel diritto nazionale scelto e si applica con carattere di prevalenza sullo stesso in ragione della propria specialità, salvo che le parti facciano uso delle facoltà di esclusione specificamene previste agli artt. 12  e 28 CISG. Da qui l’estrema importanza di una corretta formulazione delle clausole di scelta di legge applicabile, anche alla luce di interpretazioni divergenti quali quelle del OLG München citata.

Il nostro studio offre alle aziende la propria expertise in campo internazionale sia nella corretta redazione delle clausole contrattuali più aderenti alle proprie eigenze sia nella soluzione di problematiche che possano insorgere a seguito della mancata o incorretta formulazione di dette clausole nell’ambito di una vendita internazionale tra Italia e Germania.

Competenza del giudice italiano per illeciti civili

Segnaliamo la sentenza nr. 27164 del 26 ottobre 2018 della Corte di Cassazione a sezioni unite in tema di giurisdizione del giudice italiano nei confronti di soggetti stranieri in materia di illeciti civili.

In particolare la Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sulla giurisdizione del giudice italiano in merito alla domanda risarcitoria avanzata da un’emittente radiofonica italiana nei confronti di una radio slovena operante su una frequenza diversa, a causa delle illecite interferenze, provenienti dall’impianto dell’emittente slovena, con il segnale irradiato dall’impianto dell’attrice in Italia.

Le Sezioni Unite richiamano espressamente la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea – Corte giust. 11 gennaio 1990, causa C-220/88, e Corte giust. 16 luglio 2009, C-189/08 – osservando che, ai sensi dell’art. 5, n. 3, Regolamento CE n. 44del 2001 [ora sostituito dall’art. 7, n. 2, Regolamento UE n. 1215 del 2012], deve aversi riguardo al “luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto”, ovvero il luogo in cui è sorto il danno ed in cui il fatto causale ,generatore della responsabilità da delitto, ha prodotto direttamente i suoi effetti dannosi nei confronti della vittima immediata, dovendosi avere riguardo non solo al “luogo dell’evento generatore del danno”, ma anche al “luogo in cui l’evento di danno è intervenuto” e non rilevando invece il luogo dove si sono verificate o potranno verificarsi le conseguenze future della lesione del diritto della vittima.

Nel caso di specie il luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto non è dunque quello in cui è ubicato l’impianto estero della radio straniera ma, piuttosto, quello in cui sorge il danno, ovvero l’area colpita dall’interferenza individuabile sul territorio italiano.

Diritto indennità nei contratti di agenzia

Segnaliamo una nuova sentenza della Corte di Giustizia Europea (nr. 51/18 Lussemburgo, 19 aprile 2018 causa C-645/16) sul riconoscimento del diritto all’indennità di fine rapporto degli agenti commerciale anche laddove la cessazione del contratto si verifichi nel corso del periodo di prova.

L’agente concludeva con il preponente un contratto di agenzia commerciale in base al quale si obbligava alla vendita per conto della società preponente di venticinque ville all’anno. Il contratto prevedeva un periodo di prova di un anno con la facoltà per ognuna delle parti di recedere dal contratto entro tale termine salvo un congruo preavviso.

Dopo sei mesi il preponente risolveva il contratto di agenzia in ragione del mancato raggiungimento degli obiettivi contrattualmente previsti da parte dell’agente. Quest’ultimo richiedeva dunque l’indennità di fine rapporto, fondando la propria pretesa sul dettato della direttiva europea 86/653/CEE ai sensi della quale, a seguito della cessazione del contratto, l’agente ha diritto ad un’indennità nella misura in cui:

  • abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente abbia ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti;
  • il pagamento di tale indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente commerciale perde e che risultano dagli affari con tali clienti.

La Corte di Cassazione francese, investita della controversia, si rivolge alla Corte di Giustizia richiedendo se l’articolo della direttiva relativo al riconoscimento dell’indennità debba trovare applicazione nel caso di cessazione del contratto d’agenzia commerciale durante il periodo di prova, tenendo presente che il periodo di prova non è contemplato dalla direttiva. Nella sentenza in oggetto, la Corte di Giustizia, dopo avere osservato che la pattuizione relativa al periodo di prova nell’ambito del contratto di agenzia, pur non previsto dalla direttiva, è lasciato alla libertà contrattuale delle parti, statuisce che l’agente commerciale ha diritto a ricevere l`indennità di fine rapporto – laddove sussistano le condizioni richieste dalla normativa- anche durante il periodo di prova. La Corte argomenta la sua decisione ribadendo la finalità compensativa dell’indennità di fine rapporto, che non è volta a sanzionare la risoluzione del contratto ma ad indennizzare l’agente per la sua attività svolta a favore del preponente di cui quest’ultimo continui a beneficiare a seguito della cessazione del rapporto.

Lo studio legale A&R Avvocati Rechtsanwälte con sede a Monaco di Baviera, Milano e Padova Vi assiste nell’individuazione e calcolo del diritto di indennità di fine rapporto in Germania. Grazie ad una consulenza competente e pluriennale il nostro studio legale Vi fornirà le indicazioni più adatte alle Vostre esigenze commerciali.