Il valore del conferimento in denaro tra coniugi sposati in regime di separazione dei beni: è criterio sufficiente per determinare la sussistenza di una società di fatto tra marito e moglie?

Nella relazione tra coniugi può capitare che il marito o la moglie effettuino a favore dell’altro coniuge ovvero della sua azienda dei versamenti in denaro ovvero dei finanziamenti. Tuttavia, tale circostanza potrebbe dare adito a spiacevoli conseguenze in termini di responsabilità di alcuno dei coniugi qualora le suddette operazioni economiche fossero inquadrate come inserite in un contesto societario ove il coniuge “finanziatore” potesse essere qualificato come “socio di fatto” dell’azienda della propria moglie o del proprio marito, risultando dunque un unico soggetto di diritto.

Al fine di verificare la sussistenza di tale circostanza e, quindi, l’esistenza di una società di fatto tra coniugi, debbono sussistere alcuni requisiti ovverossia un elemento oggettivo, rappresentato dal conferimento di beni o servizi, con la formazione di un fondo comune, e di un elemento soggettivo, costituito dalla comune intenzione dei contraenti di vincolarsi e di collaborare per conseguire risultati patrimoniali comuni nell’esercizio collettivo di un’attività imprenditoriale. Tale comune intenzione costituisce il contratto sociale, senza del quale la società, non può esistere.

Stante la definizione di cui sopra, si deve procedere ad analizzare se effettivamente il conferimento di denaro da parte della moglie o del marito (elemento oggettivo) e la ratio con cui si è effettuata l’operazione economica (elemento soggettivo) siano elementi sufficienti ad indurre il Giudice a ritenere che tra i coniugi sposati in regime di separazione dei beni sussista una società di fatto.

A tal riguardo, ci si riporta ad una pronuncia della Cassazione che specifica ulteriormente il concetto di società di fatto per la cui esistenza “è sufficiente la dimostrazione di un comportamento, da parte dei soci, tale da ingenerare nei terzi il convincimento giustificato ed incolpevole che quelli agissero come soci, atteso che, nonostante l’inesistenza dell’ente, per il principio dell’apparenza del diritto, il quale tutela la buona fede dei terzi, coloro che si comportino esteriormente come soci vengono ad assumere in solido obbligazioni come se la società esistesse”, specificando però che in caso di consanguinei “la prova della esteriorizzazione del vincolo deve essere particolarmente rigorosa, occorrendo che essa si basi su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l’intervento del familiare possa essere motivato dalla “affectio familiaris”, sicché, di regola, non è di per sé sufficiente la dimostrazione di finanziamenti e/o pagamenti ai creditori dell’impresa da parte del congiunto dell’imprenditore, costituendo questi atti neutri, spiegabili anche in chiave di solidarietà familiare” (Cass. civ. n. 16829/2013).

Dalla pronuncia riportata, si evince che un semplice finanziamento o un intervento del familiare non possa di per sé indurre a ritenere la sussistenza di una società di fatto tra congiunti ma è necessaria l’esteriorizzazione, cioè l’effettiva manifestazione esterna, del vincolo.

Con riferimento al concetto di “esternalizzazione”, cioè alla circostanza per cui il vincolo sociale sia conoscibile all’esterno, bisogna far riferimento ad alcuni indicatori afferenti alla società di fatto determinati dalla giurisprudenza. Secondo quest’ultima, affinché sussista una società di fatto è necessario che emergano nei confronti dei terzi:

– La contemplatio domini: non è necessaria la spendita del nome degli altri soci, essendo sufficiente che il comportamento di chi agisce per la società siano tali da rendere palese al terzo sia il vincolo sociale sia la riferibilità del negozio alla società;

– Finanziamenti, fideiussioni e altre garanzie quando, in concorso con gli altri elementi strutturali del rapporto di società, attuano una sistematica opera a sostegno all’impresa. Con riferimento alla sistematicità degli interventi, non bisogna far riferimento ad un criterio solamente quantitativo ben potendo essere rilevante un finanziamento sotto il profilo qualitativo ad es. finanziamenti effettuati in momenti decisivi per lo sviluppo dell’impresa o per evitarne la crisi;

– Esistenza di un fondo comune e presenza dell’affectio societatis che emerge dal vincolo di cooperazione instaurato per un interesse comune nonché dallo scopo della ripartizione degli utili. L’affectio societatis può essere desumibile anche dalla mancanza di retribuzione;

– In particolare, con riferimento alla società costituita tra i coniugi, per poter affermare l’esistenza di una società di fatto tra coniugi occorrono elementi sistematici ed univoci dai quali si possa desumere l’effettiva intenzione di gestire in comune l’attività. Inoltre, tali elementi concludenti debbono essere rigorosamente provati, nonché idonei ad escludere che l’eventuale partecipazione all’attività aziendale del coniuge sia motivata esclusivamente dall’affectio maritalis nonché a delineare in modo inequivoco la compartecipazione all’attività commerciale.

 

In conclusione, un coniuge può essere qualificato come “socio di fatto” dell’altro ed incorrere in responsabilità in relazione alle vicende che coinvolgano la società del partner nel caso in cui sussista un effettivo conferimento ovvero finanziamento al coniuge o alla sua società, nel caso in cui vi sia una volontà di partecipare alla società e l’operazione economica effettuata ne è una prova e, inoltre, deve sussistere la percezione – da parte dei terzi – che marito e moglie agiscano “in società” in modo sistematico ed univoco.

La misura della provvigione del mediatore in assenza di accordo e il criterio dell’equità

Molte delle controversie che sorgono nell’ambito della compravendita immobiliare riguardano la provvigione spettante al mediatore nonché la misura della stessa. Sul punto, il codice civile fornisce definizioni e principi che in combinato disposto con le disposizioni di legge e l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza, forniscono una soluzione alle vertenze in tema di misura della provvigione.

Come noto, il mediatore è quel soggetto che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare. Come già trattato in precedenza, il diritto alla provvigione del mediatore nasce per il solo fatto di aver messo in contatto le parti per la conclusione dell’affare che viene individuata nella conclusione di un contratto (anche preliminare) (vedasi anche Provvigione per il mediatore senza conferimento di incarico?).

Qualora la controversia non verta tanto sull’an, poiché l’affare tra le parti è stato concluso, ma sul quantum, ovverossia sulla misura della provvigione, è necessario innanzitutto prendere in considerazione il dettato dell’art. 1755 c.c. e verificare se vi sia accordo tra le parti in relazione alla provvigione.

Nel caso in cui le parti (tra loro e con il mediatore) non abbiano precedentemente pattuito la misura della provvigione, sempre ai sensi dell’art. 1755 c.c. si deve far riferimento ad altri criteri sussidiari. Essi sono le tariffe professionali e gli usi. In mancanza di questi elementi, la provvigione verrà invece determinata dal Giudice secondo il criterio dell’equità. Tuttavia, prima di fare ricorso al criterio equitativo, bisogna tener conto del dettato della L. 39/1989 concernente la disciplina della professione del mediatore, ad oggi ancora in vigore.

Essa all’art. 6 prevede che “la misura delle provvigioni e la proporzione in cui questa deve gravare su ciascuna delle parti, in mancanza di patto, sono determinate dalle giunte camerali, sentito il parere della commissione provinciale di cui all’art. 7 e tenendo conto degli usi locali”. All’uopo si precisa che le commissioni provinciali sono commissioni istituite in seno a ciascuna camera di commercio che si occupa delle iscrizioni nel ruolo e alla tenuta del ruolo stesso.

Ciò è supportato anche dalla giurisprudenza di merito che qualifica la norma testé rammentata come integrativa della precitata disposizione del c.p.c. In tal senso si è recentemente pronunciato un Tribunale, precisando che: “Accertata l’attività di mediazione, in base all’art. 1755 del c.c., il giudice determina la misura della provvigione, e la proporzione in cui questa deve gravare su ciascuna delle parti, in mancanza di patto, tariffe personali o di usi, secondo equità. Al riguardo, l’art. 6 cpv. L. 3 febbraio 1989, n.39 recante la modifica e le integrazioni alla L. n. 253 del 1958, concernente la disciplina di professione del mediatore, dispone che in mancanza di patto, la misura e la proporzione predette sono determinate dalle giunte camerali, sentito il parere della commissione provinciale e tenendo conto degli usi locali. Tale norma, non ha nonostante detta integrazione resta sostanzialmente invariata” (Trib. Parma 28/02/2018, n.311). La natura integrativa della norma viene altresì confermata dalla dottrina (G. Cian).

Da quanto sopra esposto si evince che dati i criteri delle tariffe professionali e gli usi, il criterio dell’equità assuma un carattere del tutto residuale.

In particolare, la giurisprudenza precisa che “atteso il carattere sussidiario dei criteri previsti in ordine successivo dall’art. 1755, secondo comma c.c., questa deve essere determinata dal giudice secondo equità, se le parti non ne abbiano stabilito la misura e se non è provata l’esistenza di tariffe professionali e di usi locali” (Cass. civ. sent. n.13656/2012) ed ancora “la misura della provvigione dovuta al mediatore è determinata dal giudice solo in assenza di specifica previsione delle parti, secondo le fonti di integrazione previste in ordine successivo dall’art. 1755, comma 2, c.c.; di conseguenza, la mancata prova degli usi normativi non comporta, per ciò solo, il rigetto della domanda, dovendosi ricorrere al criterio subordinato dell’equità” (Cass. civ. sent. n.11127/2022).

Di conseguenza, il criterio dell’equità sarà utilizzatro dal Giudice per determinare l’ammontare della provvigione solamente come extrema ratio. Peraltro, al criterio dell’equità deve essere interpretato nel senso civilistico del termine. La dottrina afferma che questo è un criterio non stabilito dalla legge ma rimesso al senso di equilibrio del Giudice sulla scorta del quale il giudicante, nel decidere una controversia, è chiamato a far ricorso a criteri di convenienza e di comparazione degli interessi delle parti. Proprio per questo, l’art. 1755 c.c. non fornisce evidenza dei vari fattori che devono essere tenuti in conto in una decisione in via equitativa.

Tuttavia, come sopra già precisato, si può ritenere che una decisione secondo equità possa essere assunta tenuto conto della convenienza e della comparazione degli interessi delle parti. Nel caso della mediazione, alcuni degli interessi e/o fattori potrebbero essere costituiti da: valore dell’operazione, tipologia e quantità di attività svolta dal mediatore, nesso causale tra questa e la conclusione dell’operazione economica in esame.