Obbligo di iscrizione nel Transparenzregister: cosa cambia per le società con sede in Germania

A partire dal 1° agosto 2021 è entrato in vigore in Germania il nuovo Registro per la trasparenza, c.d. Transparenzregister, in cui si restringe ulteriormente l’obbligo di registrare i dati di tutti i titolari di posizioni di controllo economico, c.d. wirtschaftliche Berechtigten, delle società di diritto tedesco. 

La riforma in parola costituisce una vera e propria rivoluzione per le imprese e società site in Germania, le quali vengono ora sottoposte ad un preciso obbligo di iscrizione in un diverso e ulteriore registro, al fine soprattutto di implementare le misure contro il riciclaggio di denaro. Ed infatti, sino ad ora gli obblighi di trasparenza previsti per le società si ritenevano adempiuti grazie alla c.d. Mitteilungsfiktion (finzione di condivisione) ai sensi del §20 comma 2 GwG (Geldwäschegesetzt, ossia la legge di contrasto al riciclaggio di denaro), in forza del quale bastava che i dati dei titolari di posizioni economiche di controllo risultassero da uno qualsiasi dei registri pubblici presso i quali le società hanno l’obbligo di iscriversi.

Con la riforma dello scorso agosto, invece, la c.d. Mitteilungsfiktion non trova più applicazione e, dunque, i dati dei titolari di posizioni economiche di controllo dovranno essere necessariamente iscritti anche nell’apposito ed ormai indipendente Transparenzregister, con il rischio di una sanzione che può arrivare sino ad euro 150.000,00 in caso di mancata registrazione.

L’obbligo di iscrizione nel Transparenzregister grava principalmente sull’Amministratore della società, il quale, atteso il generico dovere incombente sullo stesso di garantire e lavorare nell’interesse societario, dovrà occuparsi tempestivamente di effettuare le comunicazioni previste per legge. In caso contrario, la responsabilità per un’eventuale sanzione graverà necessariamente anche su quello, poiché venuto meno ad uno dei suoi più fondamentali doveri di Amministratore. Le società ed imprese saranno tenute dunque a riportare i dati dei wirtschaftliche Berechtigten, che vengono definiti ai sensi del § 3 comma 2 GwG come coloro i quali detengono più del 25% del capitale sociale, ovvero controllano più del 25% del diritto di voto o esercitano un controllo assimilabile alle ipotesi precedenti.

Alla luce della definizione normativa di wirtschaftlich Berechtigter di cui sopra emerge chiaramente l’intento del legislatore di mantenere quanto più ampio e vago possibile tale concetto, al fine di apprestare una tutela maggiormente incisiva e penetrante e lasciando così, di fatto, aperti grandi dubbi circa l’effettivo soggetto i cui dati devono essere per legge inseriti nel registro per la trasparenza. Sul punto, si consiglia e suggerisce un confronto attento con esperti del settore, i quali siano in grado di ricostruire nella maniera più approfondita possibile tale concetto, soprattutto alla luce delle costanti evoluzioni normative e giurisprudenziali in materia. L’obbligo di iscrizione nel Transparenzregister non si estende poi solo alle novelle società post – riforma, bensì anche a quelle già esistenti. Per quest’ultime, inoltre, il legislatore ha previsto dei periodi di transazione entro i quali provvedere a conformarsi alla nuova normativa, variabili dal 31 marzo 2022 sino al 31 dicembre 2022, a seconda del modello societario coinvolto.

A fronte dei grandi e incisivi cambiamenti introdotti dalla nuova riforma, si suggerisce di ricorrere all’ausilio di esperti del settore, come i professionisti dello studio A&R Avvocati Avvocati Rechtsanwälte, i quali grazie ad una pluriennale esperienza nell’ambito sia dell’ordinamento tedesco che italiano costituiscono con le loro conoscenze la bussola, grazie alla quale orientarsi in un panorama normativo nuovo e insito di dubbi e incertezze.

Avv. Valentina Preta

Condizioni generali di contratto nei rapporti internazionali: confronto tra Italia e Germania.

Le differenze ordinamentali in materia di condizioni generali rappresentano uno dei punti di maggior dibattito e criticità nei rapporti commerciali internazionali, soprattutto a fronte di un panorama giurisprudenziale ancora incerto e non uniforme. In un simile contesto, una fondamentale importanza assume la conoscenza del sistema giuridico con cui ci si raffronta e le comuni pratiche internazionali in materia.

Le condizioni generali sono termini contrattuali formulati in modo tale da trovare applicazione generalizzata in un numero indeterminato di casi. Il ricorso a tale strumento è molto diffuso nelle pratiche commerciali, soprattutto internazionali, attesi i molteplici vantaggi che lo stesso offre: redazione standardizzata, determinazioni delle condizioni in via del tutto unilaterale e soprattutto, possibilità di introduzione di clausole idonee a derogare in senso peggiorativo alle norme di legge poste a tutela della controparte contrattuale (c.d. clausole vessatorie)

Nell’ambito dei rapporti internazionali, l’impiego delle condizioni generali di contratto può generare situazioni di dubbio e smarrimento, a causa soprattutto dei differenti meccanismi previsti dai diversi sistemi ordinamentali coinvolti e applicabili.

Nel caso della Germania, le condizioni generali di contratto per essere considerate valide ed applicabili nello specifico rapporto contrattuale non necessitano di requisiti formali stringenti come quelli previsti dal diritto italiano.

In linea di massima, soprattutto nei rapporti tra imprenditori, affinché le condizioni generali trovino efficacia è necessario che il sottoscrivente sia messo nella possibilità di conoscere il contenuto delle condizioni stesse, non essendo previsto un obbligo generale di invio prima o al momento della conclusione del contratto, salvo che in alcuni specifici casi.

Il diritto tedesco, inoltre, consente altresì, sempre nelle relazioni tra imprenditori, di rinunciare alla presa visione delle condizioni generali e ciò può essere previsto generalmente in contratto. Ciò significa che, con la sottoscrizione del contratto, si potrebbe addirittura correre il rischio di trovarsi applicate delle condizioni di cui non si conosce affatto il contenuto e nulla si potrebbe opporre in merito, poiché in sede di conclusione del contratto si è rinunciato a tale possibilità, con assunzione di tutti i rischi derivanti.

Inoltre, pur se generalmente previsto l’obbligo di mettere nella condizione di conoscenza delle condizioni generali di contratto al massimo al momento della conclusione dello stesso, in alcuni casi, soprattutto a causa della complessità dell’operazione economica posta in essere, queste possono essere validamente richiamate anche in un momento successivo, come ad esempio in una lettera commerciale di conferma.

A ciò, si aggiunga che le c.d. clausole vessatorie, in Germania non devono essere necessariamente approvate con doppia sottoscrizione. Tale meccanismo, presente in Italia, consente un maggior focus sulla deroga che si sta operando, soprattutto considerato il regime di sfavore che da ciò deriva e dunque, favorisce anche, nel caso, una trattativa sul punto prima della sottoscrizione del contratto. Invece, in Germania, le clausole vessatorie rientrano nel normale corpus contrattuale e un non professionista del settore, incautamente e senza aver avuto l’opportunità di prenderne piena contezza potrebbe rinunciare ad importanti tutele giuridiche.

Pertanto, nell’ambito delle relazioni internazionali, soprattutto tra Italia e Germania, si raccomanda vivamente di prestare particolare attenzione alle condizioni generali di contratto. Sul punto, si consiglia di rivolgersi a professionisti del settore, con esperienza maturata nel settore in entrambi i sistemi giuridici di riferimento, sia quello italiano che quello tedesco.

Il nostro studio A&R Avvocati & Rechtsanwälte vanta una consolidata esperienza in materia, soprattutto nei rapporti commerciali italo-tedeschi, ed i nostri professionisti saranno in grado di assistervi in ogni passo necessario per la realizzazione dei vostri progetti.

Avv. Valentina Preta

Un importante chiarimento sulla possibilità di utilizzare sedimenti di alghe marine nella trasformazione degli alimenti bioligici con ingredienti non biologici di origine agricola

Con riferimento alla tematica del metodo di produzione biologica ed etichettatura, la Corte di Giustizia (C-815/19 – sent. CGUE del 29 aprile 2021) si è recentemente pronunciata su un caso che coinvolgeva un’azienda tedesca, la Natumi GmbH, che produceva bevande vegetali biologiche di soia e di riso, usando nella loro trasformazione un ingrediente non biologico costituito dai sedimenti essiccati e macinati di un’alga, il Lithotaminium calcareum, per arricchire le suddette bevande di calcio. Detta società, etichettava comunque detto prodotto come biologico.

Detta pratica veniva contestata dal Land Renania settentrionale-Vestfalia. In particolare, veniva contestato l’utilizzo di un minerale derivato da un’alga e ritenuto vietato nel processo di trasformazione di un prodotto biologico sulla scorta delle norme di settore con la conseguente erronea etichettatura.

La causa avviata dal Land tedesco proseguiva fino a giungere avanti il Bundesverwaltungsgericht. Quest’ultimo riteneva che l’esito della controversia dipendesse dall’interpretazione del Reg. CE n. 889/2008, inerente alle modalità di applicazione del Reg. CE n. 834/2007 recante le norme sul processo di produzione biologica, e procedeva a sospendere il procedimento, sottoponendo alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (“CGUE”), ex art. 267 TFUE, le seguenti questioni, l’una logicamente consequenziale all’altra:

  1. Se l’art. 28 del Reg. CE n. 889/2008, disciplinante l’uso di determinati ingredienti non biologici di origine agricola nella trasformazione degli alimenti, in combinato disposto con l’Allegato IX, punto 1.3 del medesimo regolamento, debba essere interpretato nel senso da consentire l’utilizzo dell’alga in questione come ingrediente nei prodotti biologici;
  2. In caso di risposta affermativa al primo quesito, se sia permesso anche l’utilizzo di alghe morte;
  3. In caso di risposta affermativa al secondo quesito, se un prodotto contenente Lithotaminium calcareum e classificato come “bio”, potesse presentare in etichetta anche il claim “con calcio”, “con alga marina ricca di calcio”, “con calcio di alta qualità derivato dall’alga marina Lithotaminium.

Nella sentenza dello scorso aprile, la CGUE afferma che nei confronti del punto 1.3 dell’Allegato IX al Reg. CE n. 889/2008 bisogna ricomprendere anche le alghe marine. Esse possono essere considerate un prodotto vegetale non trasformato ergo un ingrediente agricolo e non un minerale, come invece sostenuto dal Land Renania settentrionale-Vestfalia. Astrattamente, il Lithotaminium potrebbe dunque essere utilizzato nella trasformazione dei prodotti biologici.

Tuttavia, la CGUE ribadisce come l’utilizzo di ingredienti agricoli non biologici debba essere subordinato all’applicazione dell’art. 19 nonché all’autorizzazione ai sensi dell’art. 21 del Reg. CE n. 834/2007 e, pertanto, l’art. 28 del Reg. CE n. 889/2008 e l’Allegato IX devono essere interpretati proprio sulla base della suddetta autorizzazione.

Di conseguenza, nonostante la classificazione del Lithotaminium quale ingrediente agricolo, l’interpretazione dell’art. 21 del Reg. CE 834/2007 in combinato disposto all’interpretazione dell’art. 28 del Reg. CE 889/2008 osta all’utilizzo di una polvere ottenuta dai sedimenti dell’alga in questione in quanto la stessa non risulta indispensabile per la produzione o conservazioni delle bevande di riso e di soia prodotte dalla Natumi GmbH né tale ingrediente consente di garantire il rispetto dei requisiti dietetici di base previsti dalla normativa unionale.

Infatti, la CGUE specifica altresì che, se si consentisse l’uso del Lithotaminium nel processo di trasformazione dei prodotti biologici solamente sulla scorta dell’art. 28 del Reg CE n. 889/2008, si rischierebbe di eludere il divieto di cui agli artt. 19 e 21 del Reg. CE 834/2007 andando a rendere inoperanti le rigorose regole previste in materia di produzione biologica.

In conclusione, la CGUE, affermando che la polvere ottenuta da sedimenti dell’alga marina Lithotaminium, ingrediente non biologico di origine agricola, non è utilizzabile nelle bevande biologiche di soia e riso ai fini del loro arricchimento in calcio, risponde negativamente ai tre quesiti posti dal Bundesverwaltungsgericht, avallando, sebbene con argomentazioni differenti, la posizione del Land tedesco.

Questa pronuncia della CGUE va ulteriormente a chiarire che il processo di produzione biologico debba essere rigorosamente rispettato in tutte le sue norme, lungo tutta la filiera, al fine di perseguire l’essenziale scopo di sostenibilità ambientale, utilizzando un corretto uso dei claims alimentari e riportando una corretta etichettatura a tutela della fiducia dei consumatori.

Per apprezzare nella loro interezza le argomentazioni della CGUE qui semplificate per una più facile fruizione del lettore, si consiglia la lettura della sentenza di cui ai link sottostanti, in italiano e in tedesco:

Sentenza in lingua italiana

Sentenza in lingua tedesca

Avv. Diana Tommasin

Indennità per il distributore in Germania e possibili influenze sul diritto italiano

Il mercato attuale ricorre sempre più spesso ai c.d. contratti di distribuzione, strumento efficace e pratico per l’espansione di rapporti commerciali soprattutto a livello internazionale. Il ricorso a tale istituto ha comportato anche il configurarsi di una serie di questioni, la cui rilevanza appare quantomai attuale, soprattutto in forza dei diversi scenari giurisprudenziali configurabili. Una delle questioni sicuramente di maggior interesse è costituita dal riconoscimento del diritto all’indennità per il concessionario, a seguito di cessazione del rapporto di distribuzione, già operato dalla Giurisprudenza tedesca sulla scorta di un parallelismo con il contratto di agenzia. 

Le due fattispecie, distribuzione ed agenzia, infatti, pur se a livello teorico distinte tra loro, a livello fattuale e sostanziale possono estrinsecarsi in maniera molto simile sino a giungere ad un’equiparazione delle discipline giuridiche. Per quanto concerne il piano concettuale, il contratto di distribuzione è quel negozio con il quale un operatore economico si impegna a promuovere la vendita dei prodotti forniti da un produttore, per ottenerne opportunità di guadagno. Tale specifico negozio si caratterizza per essere costituito da una serie di rapporti di compravendita, in quanto il concessionario acquista i beni dal produttore al fine di ottenere il guadagno dovuto dalla differenza fra il prezzo di vendita e quello di acquisto. In sostanza, il contratto di distribuzione parrebbe fondarsi, almeno in apparenza, rapporti autonomi.

Di contro, invece, nel contratto di agenzia, l’agente assume stabilmente l’incarico di promuovere, per conto del “preponente”, contro retribuzione, la conclusione di contratti di zona determinata.  In questo caso, il rapporto tra le parti, pur non essendo di natura subordinata, non può neppure definirsi di natura autonoma. Ed infatti, nell’ipotesi del contratto di agenzia l’agente, soprattutto ove si tratti di prestazione di opera continuativa e coordinata, pur non trovandosi in una posizione di dipendenza verso il preponente meno forte rispetto a quella del lavoratore subordinato, di certo si trova in una più vincolante rispetto a quella dei rapporti autonomi, secondo il modello della parasubordinazione. Da ciò, discendono diverse conseguenze sul piano giuridica, tra cui l’indennità di cui all’art. 1751 c.c., così come modificata in seguito all’entrata in vigore della Direttiva comunitaria 86/653/CEE del 18 dicembre 1986, dovuta ogniqualvolta l’agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti.

Sul versante fattuale e sostanziale, invece, la realtà quotidiana mostra molto spesso come la situazione di fatto sottostante al rapporto di distribuzione non è di per sé molto diversa da quella di un contratto di agenzia. Ciò accade soprattutto nell’ipotesi in cui il concessionario abbia strettamente legato la propria attività professionale all’esistenza del contratto di distribuzione, allineando la propria attività con quella del produttore o del fornitore, a volte con notevoli mezzi di capitale proprio, assicurando altresì per un significativo lasso di tempo il proprio fatturato, ma non da ultimo anche quello del produttore, acquisendo nuovi clienti. In situazioni simili, a ben vedere, il contratto di distribuzione di per sé non pare più fondato su rapporti sostanzialmente autonomi, ma su quel modello ibrido di rapporto parasubordinato in cui rientra proprio il contratto di agenzia.

Sul punto, la Giurisprudenza tedesca, atteso proprio il parallelismo non solo fattuale, bensì anche sostanziale tra le situazioni ed i rapporti sottostanti, si è fatta interprete di un orientamento divergente rispetto a quella italiana.

Ed infatti, i Giudici teutonici sono giunti a riconoscere il diritto all’indennità anche per il distributore nelle medesime ipotesi in cui questa viene riconosciuta all’agente ai sensi del § 89b HGB (codice commerciale tedesco), come promunciato esemplariamente con sentenza della Corte suprema federale, del 13 gennaio 2010, VIII ZR 25/08.

A tal proposito, la Giurisprudenza consolidata della Corte suprema federale, si è espressa nel senso che la disposizione del § 89b HGB debba trovare applicazione anche nel caso del distributore,  se il rapporto giuridico tra lo stesso e il produttore o il fornitore non è limitato a un semplice rapporto acquirente-venditore, ma il distributoreera integrato nell’organizzazione di approccio del produttore o del fornitore in modo tale, che doveva svolgere compiti economicamente paragonabili a quelli di un agente commerciale in misura considerevole e, d’altra parte, il produttore è obbligato a trasferire la sua base di clienti al produttore o fornitore in modo che quest’ultimo possa immediatamente e senza ulteriori indugi utilizzare i vantaggi della base di clienti alla fine del contratto.

I requisiti per la sussistenza del diritto all’indennità in parola, dunque, sono principalmente due: l’integrazione nell’organizzazione delle vendite e l’acquisizione della base dei clienti.

Per quanto concerne il primo, esso viene riconosciuto anche sulla scorta di una mera presunzione, soprattutto ove gli obblighi del concessionario corrispondano almeno in parte a quelli di un agente, specialmente nel caso in cui il concessionario abbia altresì assunto ulteriori obblighi aggiuntivi di promozione delle vendite.

In merito all’acquisizione della base dei clienti, essa consiste nel beneficio che il produttore trae dall’attività del concessionario una volta venuto meno il rapporto di distribuzione. A tal proposito, la Giurisprudenza tedesca tende a riconoscere la sussistenza di tale requisito ove il concessionario sia stato tenuto, in forza delle disposizioni contrattuali, ovvero di rapporti di cortesia e prassi tra le parti, a comunicare i dati dei propri clienti al produttore.

Una volta accertata la sussistenza dei predetti requisiti, l’indennità riconoscibile in capo al distributore viene determinata alla stregua delle disposizioni relative al contratto di agenzia ai sensi del § 89b (3) HGB, ossia sulla base delle cifre di fatturato dell’ultimo anno contrattuale prima della cessazione del rapporto contrattuale.

Il panorama sopra descritto configuratosi nel diritto tedesco, non può però dirsi uno scenario a sé stante, in quanto potenzialmente riconducibile anche al sistema ordinamentale italiano, soprattutto considerato che la Direttiva comunitaria 86/653/CEE del 18 dicembre 1986 e, dunque, l’art. 1751 c.c., sono plasmati proprio sulla norma di cui al § 89b HGB. Ed infatti, i regimi di indennità di cui alla Direttiva sono stati modellati proprio sulla scorta del modello legislativo di cui al § 89b HGB, oltre che a quello francese. Attesa tale circostanza, non pare del tutto peregrina l’ipotesi di uno sviluppo anche del diritto italiano in tal senso, con tutte le conseguenze che ne derivano.

In materia di contratti di distribuzione, dunque, si rivela di fondamentale importanza l’ampia conoscenza del sistema non solo italiana, ma altresì europeo, nonché tedesco. Infatti, proprio muovendo da quest’ultimo, si possono immaginare diversi scenari, nonché rimedi e tutele all’uopo prospettabili.

A tal fine, si suggerisce di ricorrere, dato anche il forte impatto economico di una possibile indennità di fine rapporto, all’assistenza di esperti del settore, proprio come i professionisti dello studio A&R Avvocati Rechtsanwälte, in grado di cogliere le diverse sfumature dei sistemi giuridici coinvolti, nonché i molteplici parallelismi interpretativi, elementi grazie ai quali muoversi con maggior certezza nel vasto campo dei contratti di distribuzione.

Avv. Valentina Preta

La doppia imposizione internazionale dei redditi: fino a che punto può considerarsi legittima?

La mobilità di persone e capitali è un fenomeno che se pur da sempre ha caratterizzato il percorso storico evolutivo dell’uomo, nell’ultimo secolo ha conosciuto un incremento esponenziale, soprattutto grazie all’apertura delle frontiere tra i paesi membri dell’Unione Europea.

Le relazioni economiche tra diversi Stati, pur se utili per accrescere il benessere dell’intera collettività e garantire una maggior efficienza del mercato concorrenziale, hanno d’altro canto ingenerato questioni di non facile e pronta risoluzione, soprattutto legate a conflitti in materia di potestà impositiva fiscale. Sul punto, pare opportuno chiedersi cosa si intende per “doppia imposizione fiscale” e soprattutto quali sono i rimedi per impedire che uno stesso reddito possa essere tassato più volte da diversi Stati. Una simile situazione si genera solitamente quando si è in presenza delle pretese avanzate da parte di diversi Stati circa una medesima fattispecie imponibile, a causa della convergenza dei diversi criteri coinvolti per la determinazione dell’imposizione fiscale stessa: il criterio reale, relativo alla tipologia di reddito, quello territoriale e quindi connesso al luogo di produzione del reddito stesso, nonché quello personale, in forza del quale un reddito è tassato in capo alla persona residente in quel dato Stato, a prescindere da dove sia stato prodotto.

Si prenda ad esempio il reddito da lavoro dipendente, questo, stante la normativa vigente, dovrebbe essere tassato sia nel paese di residenza del dichiarante che nel Paese di produzione del reddito. Una tale conseguenza appare di per sé non solo iniqua, ma altresì controproducente e non in linea con un mercato del lavoro sempre più flessibile e delocalizzato. Il fenomeno della doppia imposizione fiscale poi, investe moltissimi altri settori, come ad esempio i dividendi, gli interessi, i redditi da stabile organizzazione, i redditi da lavoro autonomo, le royality, e molti altri ancora, tanto da rappresentare un concreto e serio rischio quotidiano per tutti gli operatori nel mercato internazionale.

Al fine di evitare le nefaste conseguenze che un’applicazione rigida della normativa fiscale potrebbe produrre, a livello internazionale gli Stati hanno cercato di fornire un primo rimedio attraverso le c.d Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate tra diversi paesi sia all’interno della zona UE che extra UE. In linea di massima, tali convenzioni prevedono una serie di disposizioni volte ad evitare che un dato reddito venga sottoposto a duplice tassazione, anche se queste non sono del tutto idonee a ricoprire l’ampia e svariata gamma di casistiche in cui un fenomeno del genere si può verificare. E non solo. Anche ove presenti convenzioni ad hoc, molto spesso sorgono conflitti circa l’interpretazione della medesima norma convenzionale da parte delle diverse amministrazioni finanziarie, senza tralasciare la circostanza per cui le Corti dei singoli stati spesso forniscono letture contrastanti tra di loro del medesimo fenomeno giuridico.

In simili ipotesi, infatti, lungi dal rappresentare le Convenzioni internazionali uno strumento di ausilio, le stesse rischiano di costituire di per sé un vero e proprio ulteriore ostacolo, per superare il quale si richiede una preparazione che vada ben oltre la sola capacità di conoscenza del proprio diritto nazionale, ma che comprenda anche una visione d’insieme dell’apparato burocratico amministrativo, nonché ordinamentale dell’altro Stato coinvolto. Infatti, solo attraverso un’equiparazione tra i differenti ordinamenti, la conoscenza approfondita di un eventuale convenzione internazionale siglata tra gli stessi, nonché dei sistemi coinvolti, sia nazionale che straniero, si può giungere ad una disamina quanto più precisa della situazione così da evitare di veder tassato il proprio medesimo reddito in due diversi Stati, senza nulla poter opporre.

Ed invero, proprio la dimestichezza e la capacità di sapersi muovere in diversi sistemi ordinamentali molto spesso rappresenta la chiave per evitare fenomeni di doppia imposizione, anche e soprattutto quando è del tutto assente una specifica convenzione internazionale. A titolo di esempio, attesa anche l’esperienza maturata dal nostro Studio nel settore, si può rappresentare lo scenario molto comune di apertura di successione ereditaria di soggetto residente in Italia, con beni in Italia e proprietario di uno o più immobili in Germania. In tale ipotesi, ai sensi della normativa applicabile, considerato che non esiste nessuna Convenzione sul punto, la tassa di successione dovrebbe imporsi sui beni in Italia, ai sensi della normativa nazionale, in forza sia del criterio della residenza che quelli territoriale e reali. Per quanto concerne il profilo tedesco poi, la legislazione tedesca prevede che la tassa di successione debba essere calcolata sull’integrità del patrimonio riferibile al decuius, anche quello sito all’estero, se questi risultava residente (Wohnsitz) in Germania, sempre ai sensi della normativa di riferimento.

Quest’ultima previsione può di per sé legittimare una doppia imposizione fiscale, atteso che Il concetto di residenza è di per sé molto ampio e la Giurisprudenza teutonica ha nel tempo teso ad estenderlo sino a ricomprendervi l’ipotesi in cui ci si recasse nell’immobile sito in Germania anche solo due volte l’anno. Una simile situazione potrebbe così comportare il rischio per gli eredi di veder tassati i medesimi beni, sia in Italia che in Germania, secondo anche parametri impositivi molto diversi tra loro, con oneri insostenibili da affrontare.

E dunque, cosa fare? Come detto, infatti, non vi è nessun rimedio convenzionale a cui ricorrere che apporti ufficialmente un correttivo a tale distorsione del sistema. Proprio in casi del genere, si rivela decisiva l’approfondita conoscenza del diritto interno soprattutto tedesco, che a determinate condizioni consente di evitare il fenomeno impositivo soprattutto sulla scorta dell’interpretazione giurisprudenziale del concetto di “Wohnsitz.”

In sostanza, la carta vincente rimane sempre costituita una consulenza attenta, dedicata ed esperta, come quella che il nostro studio offre ogni giorno a coloro che decidono di rivolgersi al nostro gruppo di professionisti.

Avv. Valentina Preta

Il Consiglio di Stato ribadisce il difetto giurisdizione del giudice amministrativo nelle controversie tra privato e organismo di controllo

Anche il Consiglio di Stato ribadisce il difetto giurisdizione giudice amministrativo nelle controversie tra privato e organismo di controllo (vedi anche “Sospensione della certificazione biologica, che fare?”).

Con la pronuncia n. 2576 del 26 marzo 2021 anche il Consiglio di Stato accoglie la tesi espressa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, secondo cui competente per conoscere delle controversie tra un operatore nel settore biologico e l’organismo di controllo (nel prosieguo “OdC”) è il giudice civile. La vicenda che ha condotto alla recentissima pronuncia prende le mosse proprio dal Veneto.

Infatti, una nota azienda agricola che si era vista sopprimere dall’OdC la certificazione biologica per una partita di uva a causa del mancato rispetto delle disposizioni di cui al Reg. CE n. 834/2007 aveva adito il TAR Veneto chiedendo l’annullamento della misura adottata dall’OdC. Tuttavia, il TAR Veneto dichiarava il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.

L’operatore biologico adiva dunque il Consiglio di Stato appellando la pronuncia del TAR, adducendo a fondamento una decisione della stessa sezione Consiglio di Stato risalente al 2019, che confliggeva con quanto espresso dalle Sezioni Unite in materia di giurisdizione nel corso del medesimo anno.

Tuttavia, contrariamente all’orientamento espresso in precedenza, questa volta il Consiglio di Stato si è conformato a quanto statuito dall’ordinanza delle Sezioni Unite del 5 aprile 2019 n. 9678 e, successivamente, ribadito dalle stesse con la sent. n. 1914/2021, pronunciata proprio in risposta al precedente del Consiglio di Stato (cfr. Cons. Stato sent. n. 4114/2019). Di conseguenza, con la pronuncia dello scorso marzo il Consiglio di Stato, confermando il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo nelle controversie tra operatore biologico e OdC, ha ribadito due fattori fondanti la giurisdizione civile, come espressi dalle Sezioni Unite della Suprema Corte.

Il primo consiste nel fatto che gli OdC autorizzati dal MIPAAF ad effettuare i controlli e rilasciare la certificazione biologica “non assumono la veste di P.A. ex art. 7, comma 2, c.p.a., né partecipano all’esercizio di un pubblico potere, svolgendo essi un’attività ausiliaria, valutativa e certificativa (prelievi e analisi) sotto la sorveglianza dell’autorità pubblica, che si sostanzia in apprezzamenti ed indagini da compiersi sulla base di criteri esclusivamente tecnici e scientifici, costituente espressione di una discrezionalità meramente tecnica, in relazione alla quale sorgono, in capo ai soggetti privati destinatari del controllo posizioni di diritto soggettivo la cui tutela rientra nella giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria” (Cass. civ., sez. un., ord. 5 aprile 2019 n. 9678).

Il secondo riguarda la circostanza secondo cui gli OdC: “operano secondo il diritto privato in adempimento di obbligazioni aventi fonte contrattuale con il produttore biologico che si assoggetta alla relativa certificazione di conformità”. (Cass. civ. sez. un. sen. 28 gennaio 2021 n. 1914).

Avv. Diana Tommasin

Avv. Diana Tommasin – Specializzata in diritto alimentare

Congratulazioni alla nostra collega, Avv. Diana Tommasin, per il conseguimento del Master di II livello in materia di diritto alimentare presso l’Università Roma Tre.

Con la discussione della tesi di master avente ad oggetto i finanziamenti europei all’agricoltura, con particolare riferimento all’agricoltura biologica, l’Avv. Tommasin conclude con successo un importante percorso di specializzazione professionale. Il raggiungimento di questo traguardo aggiunge un ulteriore tassello alle competenze dell’Avv. Tommasin e la rendono il referente ideale per i nostri clienti per tutte le questioni afferenti il diritto alimentare internazionale e di tutela del marchio.

Questo nuovo apporto va ad ampliare e arricchire le competenze del nostro team specializzato nell’ambito del diritto alimentare internazionale, settore che sta acquisendo sempre maggiore rilevanza a livello nazionale e sovrannazionale. A breve ulteriori novità sul tema. Vi aspettiamo!

Il Vostro team A & R Avvocati Rechtsanwälte

Sospensione della certificazione biologica, che fare?

Competenza giurisdizionale in caso di richiesta risarcimento danni a seguito del provvedimento di sospensione della Certificazione di operatore biologico.

Una recentissima sentenza del TAR dell’Emilia-Romagna è nuovamente intervenuta sulla controversa questione circa la competenza giurisdizionale in merito all’impugnazione dei provvedimenti di Sospensione della Certificazione ovvero di Soppressione delle certificazioni bio, adottate dall’Organo di Controllo (O.d.C.).

I fatti oggetto di causa vedevano un operatore del settore biologico citare avanti il Giudice Amministrativo l’O.d.C. che aveva effettuato i controlli annuali sui suoi appezzamenti coltivati a biologico. L’operatore contestava le risultanze dei suddetti controlli nonché le sanzioni irrogate dall’ O.d.C., consistenti nella sospensione della certificazione nonché nel ricalcolo del periodo di conversione, chiedendo al Giudice l’annullamento dei provvedimenti assunti nei suoi confronti dall’O.d.C. nonché richiedere il risarcimento dei danni. Nella sua pronuncia, il giudice amministrativo compie una serie di rilievi sotto il profilo giuridico e giurisprudenziale tali da ribadire che il rapporto intercorrente tra l’O.d.C. e l’operatore nel settore biologico ha carattere privatistico e, pertanto, sarà il Giudice Ordinario a dover conoscere delle controversie insorgenti tra le predette parti. Il TAR dell’Emilia-Romagna fonda la propria decisione operando un’analogia tra il rapporto sussistente tra l’ANAC (Autorità Nazionale Anticorruzione) e la SOA (Società Organismo di Attestazione) a quello intercorrente tra il MIPAAF (Ministero delle Politiche Agricole e Forestali) e l’O.d.C., nonché il rapporto tra la SOA e l’impresa di costruzioni al rapporto che lega l’O.d.C. e l’operatore biologico. Il Giudice amministrativo sostiene infatti che tra i suddetti enti e soggetti sussistano dei rapporti della medesima natura. Invero, come tra l’ANAC e la SOA sussisterebbe un rapporto di natura pubblicistica per cui l’ANAC avrebbe potere di autorizzazione, controllo e vigilanza sulla SOA, così sussisterebbe un rapporto analogo tra il MIPAAF e O.d.C. Ciò deriverebbe dal fatto che il Reg. CE 834/2007 designava appunto il MIPAAF quale ente responsabile per l’organizzazione dei controlli della produzione biologica nonché delle funzioni di vigilanza sugli organismi di controllo da quest’ultima accreditati. Tra MIPAAF e O.d.C. sussiste dunque un rapporto di natura pubblicistica di accreditamento, controllo e vigilanza del primo nei confronti del secondo. Invece, tra la SOA e l’impresa di costruzione sussisterebbe un rapporto di tipo privatistico scaturente dalla sottoscrizione ad opera delle parti di un contratto. Sulla base di tale accordo, le imprese di costruzione corrispondono un compenso alla SOA per l’attività di attestazione dei requisiti necessari per il rilascio delle relative certificazioni. È evidente come il rapporto intercorrente tra i predetti soggetti sia caratterizzato da prestazioni corrispettive e le parti siano titolari di diritti soggettivi con la conseguente giurisdizione del Giudice Ordinario. Parimenti, anche tra l’O.d.C. e l’operatore biologico sussisterebbe un rapporto di diritto privato. Invero, l’O.d.C. è un ente di natura privatistica e le attività che esso svolge nei confronti dell’operatore biologico sono regolate da un contratto. In particolare, all’O.d.C. viene corrisposto un compenso dall’operatore biologico per verificare il rispetto della normativa (europea e nazionale) in materia di biologico al fine di consentire all’operatore di fregiarsi di tale certificazione. Inoltre, l’O.d.C. in virtù del suddetto rapporto può rilasciare la dovuta documentazione nonché applicare sanzioni nel caso in cui, a seguito dei controlli effettuati su base annuale, riscontrasse delle non conformità. Il vincolo contrattuale che lega l’O.d.C. all’operatore biologico è dunque un rapporto a prestazioni corrispettive di natura privatistica, sebbene a carattere vincolato. Infatti, l’O.d.C. deve esercitare le attività stabilite contrattualmente con l’operatore ma nei limiti delle attività per le quali è stato accreditato dal MIPAAF.

Inoltre, il Tar dell’Emilia-Romagna fonda la competenza giurisdizionale del Giudice Ordinario per le controversie scaturenti tra O.d.C. ed operatore biologico anche su un ulteriore assunto. Nello svolgimento della loro attività di controllo, gli O.d.C., devono dotarsi di un “organo collegiale” per la definizione delle controversie insorgenti tra gli O.d.C. e gli operatori. In particolare, le pronunce dei suddetti organi hanno natura di lodo arbitrale, come specificamente previsto dalla normativa in materia nonché dalla clausola compromissoria, che viene sempre inserita nel contratto di sottoposizione al controllo sottoscritto dalle parti. Sul punto il TAR osservava che, posto che il legislatore assoggettava una determinata materia alla competenza arbitrale, ciò significa che la res contenziosa debba per forza aver avuto ad oggetto dei diritti disponibili, il cui sindacato appartiene alla competenza del Giudice Ordinario, e non siano perciò qualificabili come interessi soggettivi, il cui sindacato spetterebbe invece al Giudice Amministrativo.

Infine, a chiusura delle sue argomentazioni, il Giudice Amministrativo ribadisce l’orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione, che era intervenuta, già nella primavera del 2019, a dirimere il conflitto giurisprudenziale sorto sul punto (cfr. Cass. Civ., Sez. Un., n. 9678/2019).

Il TAR dell’Emilia-Romagna si conforma all’orientamento della Suprema Corte che, in contraddizione a quanto affermato in precedenza dal Consiglio di Stato, sosteneva che il rapporto tra O.d.C ed operatori abbia ad oggetto diritti soggettivi e rientri pertanto nella giurisdizione del Giudice Ordinario. Infatti, come poi ripreso anche dal TAR, l’Organo Nomofilattico evidenziava che gli O.d.C., sotto il profilo soggettivo, sono soggetti di diritto privato, non assumono le vesti della P.A., né partecipano all’esercizio di un pubblico potere svolgendone un ufficio. Invece, essi esercitano solamente un’attività ausiliaria di carattere tecnico scientifico, sotto sorveglianza del MIPAAF. Peraltro, detta attività viene svolta nei confronti dell’operatore sulla scorta di un contratto, instaurando un rapporto oggettivamente privatistico con quest’ultimo.

In conclusione, sulla scorta delle argomentazioni sopra riportate, il TAR Emilia-Romagna ritiene di non dare seguito al conflitto giurisprudenziale risolto lo scorso anno dalle Sezioni Unite, ribadendo la giurisdizione del Giudice Ordinario nelle controversie tra O.d.C. e operatore del settore biologico, il cui rapporto è squisitamente privatistico sia sotto il profilo soggettivo che sotto il profilo oggettivo.

Avv. Diana Tommasin

 

 

I contratti internazionali al tempo del COVID: causa di forza maggiore?

La Pandemia in atto, con la sua seconda ondata e il contesto generalizzato di incertezza che regna sovrano in tutto il mondo e soprattutto in Europa, rischia di creare non pochi problemi agli scambi e alla contrattualistica internazionali, in misura almeno equivalente a quelli già registrati nel marzo scorso, se non più gravi.

La possibilità che lo scenario verificatosi già ad inizio anno si ripeta anche nel prossimo futuro diviene sempre più concreta, atteso l’esponenziale aumento del numero di contagi e le decisioni adottate dalla maggior parte dei governi nazionali, i quali continuano a riservarsi di ricorrere a nuovi lockdown generalizzati, ove necessario. I rischi connessi ad un simile scenario aumentano se si considera che ad una chiusura generalizzata nel proprio paese, potrebbe invece corrispondere un mantenimento della normale attività produttiva in altri. In tale caso, oltre alle gravi conseguenze causate da un arresto produttivo, potrebbero aggiungersi altresì le pretese dei partner commerciali esteri, i quali, anche in assenza di provvedimenti governativi nei propri paesi hanno dovuto ridurre, se non interrompere, la normale attività produttiva a causa dell’impossibilità di ricevere la materia prima necessaria. In tal caso, si ripresenterebbe uno scenario proprio come quello del marzo scorso.

Come ben si ricorda, infatti, all’epoca moltissime aziende sono state costrette a chiudere da un giorno all’altro in forza di continui provvedimenti governativi ed una volta terminata questa prima fase, oltre alle gravi ripercussioni economiche, a minacciare la stabilità dell’intero sistema produttivo sono intervenute le molteplici richieste di risarcimento danni dovuti all’impossibilità per le aziende in funzione di continuare la propria attività a causa del blocco subito dalla supply chain. Difronte ad un simile quadro, le gravi ripercussioni economiche che si sarebbero originate, ove riconosciute responsabilità in capo alle aziende impossibilitate ad adempiere per via delle disposizioni governative, sono state evitare ricorrendo a due principali istituti giuridici: il caso fortuito e l’eccessiva onerosità sopravvenuta.

Il primo, infatti, ha trovato applicazione in tutti quei casi in cui una l’esecuzione di una prestazione era divenuta impossibile a causa dei provvedimenti governativi con i quali si sono imposte chiusure ed il secondo ove le prestazioni, pur se non impossibili, di per sé erano divenute talmente gravose da rendere non più sostenibile l’adempimento delle stesse. Entrambi gli istituiti in parola hanno contribuito al mantenimento della stabilità delle aziende maggiormente colpite dalle conseguenze dei provvedimenti adottati, evitando alle stesse di dover corrispondere ingenti risarcimenti danni così come da previsioni contrattuali, ovvero secondo le normali logiche del diritto. Il ricorso a tali strumenti è stato possibile grazie alla natura degli stessi, i quali infatti consentono di evitare il sorgere delle normali conseguenze dovute all’inadempimento, nel caso in cui si verifichi un evento straordinario, imprevedibile e fuori dal controllo delle parti. Dunque, elemento comune per l’operatività degli istituti giuridici in esame è proprio quello dell’imprevedibilità.

Ciò detto, eventuali ed ulteriori provvedimenti di chiusure generalizzate possano attualmente ancora definirsi imprevedibili?

Dalla risposta che si fornisce a questa domanda, discendono anche importanti e rilevanti conseguenze sul piano giuridico e, soprattutto, di tutela per il buon funzionamento degli scambi e della contrattualistica internazionali. Si pensi al caso in cui un’azienda italiana, avente rapporti con altre società tedesche, si veda nuovamente costretta a chiudere in forza dei nuovi provvedimenti ministeriali, mentre quella estera, invece, no. Da tale situazione potrebbe derivare un’impossibilità ad adempiere da parte dell’azienda italiana, di per sé fonte di conseguenze sul piano sia della responsabilità contrattuale che extracontrattuale.

Potrebbe in questo caso l’azienda italiana ricorrere all’istituto della forza maggiore o a quello dell’eccessiva onerosità sopravvenuta?

Per rispondere a questa domanda, considerate le osservazioni di cui sopra, bisogna chiedersi: una chiusura delle aziende era del tutto imprevedibile al momento della sottoscrizione e/o dell’esecuzione del contratto? Con ragionevole certezza, la domanda appena formulata non può che trovare una risposta negativa. A fronte di ciò, ben si comprende come il rischio per gli operatori nel settore potrebbe essere proprio quello di vedersi riconoscere una vera e propria responsabilità da inadempimento. Invero, atteso che l’evento in parola non può considerarsi quale del tutto imprevedibile, considerato quanto già accaduto, le parti, ben avrebbero potuto adeguare le disposizioni contrattuali al fine di prevedere obblighi, conseguenze ed esclusioni di responsabilità nell’ipotesi di nuovi provvedimenti governativi di chiusura generale dovuti ad una seconda ondata pandemica. Un simile discorso poi, si ritiene possa valere non solo per i contratti internazionali conclusi attualmente, ma anche per quelli precedenti alla comparsa del COVID 19 e non opportunamente adeguati ai nuovi scenari prospettabili. Tutto ciò considerato, dunque, la necessità di tutelare i traffici commerciali internazionali della propria azienda appare in questo preciso momento storico di fondamentale importanza, atteso che gli istituti giuridici sino ad ora impiegati potrebbero non costituire più una utile valvola di salvezza.

Innanzi a tali rilevanti problematiche, quali strumenti offre il diritto per garantire comunque una tutela simile o anche maggiore rispetto a quella in precedenza fornita dalla forza maggiore e dalla eccessiva onerosità sopravvenuta? Sul punto, bisogna precisare che questo è un terreno del tutto nuovo anche per gli operatori del diritto, i quali sono chiamati a confrontarsi con una delle più importanti sfide dell’ultimo secolo, impiegando non solo strumenti già esistenti, ma elaborandone anche di nuovi, onde garantire la maggior tutela e certezza possibile, valutata per la singolarità e peculiarità del caso di specie.

E dunque, ci si chiede: quali strumenti possono essere impiegati nell’ambito dei traffici internazionali in un contesto di esposizione ad alto rischio come quello attuale?

In linea di massima, una valida soluzione può essere garantita proprio in sede contrattuale, in caso di nuove intese, tramite clausole e condizioni elaborate ad hoc, ovvero con modifiche e/o integrazione dei negozi già in essere, grazie alle quali tenere in considerazione tutti i possibili scenari prevedibili. Per l’ipotesi di totale impossibilità sopravvenuta, ad esempio, le peculiarità del caso di specie, nonché altre ed eventuali circostanze potranno essere convogliate in specifiche clausole contrattuali.  Queste dovranno in primo luogo limitare l’oggetto, ossia specificare a quali eventi e circostanze le parti intendono dare rilevanza per l’operatività della clausola stessa, nonché obblighi di tempestiva comunicazione secondo le forme ritenute più opportune non solo dell’evento previsto e concretizzatosi, ma anche delle obbligazioni il cui adempimento è divenuto impossibile, con l’esclusione specifica delle circostanze a cui non si vuole dare rilievo per l’operatività della clausola stessa. A seconda della tipologia contrattuale poi, potrebbe altresì prevedersi la sospensione dei termini per tutta la durata dell’evento considerato ed in ultima istanza anche la facoltà di recesso.

Nel caso di eccessiva onerosità sopravvenuta, invece, le parti ben potrebbero concordare una c.d. clausola di hardship, ovvero modificarla ove già presente, con la quale prevedere l’obbligo di rinegoziare i termini dell’accordo, ed in caso di esito infruttuoso di tali trattative, la risoluzione del contratto stesso.

Le ipotesi di cui sopra costituiscono di certo un buon punto dal quale iniziare poi a sviluppare l’architettura contrattuale, con tutte le sovrastrutture necessarie, a seconda delle diverse e concrete esigenze, ma queste necessitano sempre e comunque di essere elaborare in maniera attenta e approfondita, in modo da adattarle alla fisionomia del caso di specie.

A tal fine, un utile ausilio può essere costituito dall’assistenza di un professionista nel settore della contrattualistica internazionale, la cui esperienza e professionalità ben possono costituire validi strumenti per accompagnare in piena sicurezza l’attività della Vostra azienda.

 

A cura di: Avv. Valentina Preta

Novità in tema di evocazione

Il fenomeno dell’evocazione è ben conosciuto da produttori beneficiari di denominazione d’origine registrata che, per mezzo di consorzi a protezione di DOP ed IGP, hanno il difficile compito di controllare e denunciare eventuali comportamenti scorretti dei produttori concorrenti che imitino, usurpino od evochino i prodotti a denominazione d’origine, senza rispettare il disciplinare che li regolamenta.

Nello specifico, ai sensi del Reg. UE 1153/2012, con il termine evocazione si intende la pratica commerciale scorretta capace di suscitare nel consumatore l’idea che quel prodotto abbia le stesse caratteristiche e qualità del prodotto a denominazione registrata o che sia esso stesso prodotto a denominazione registrata. La repressione di “pratiche evocative” ha dunque la finalità di tutelare la qualità dei prodotti a denominazione d’origine, tutelare i produttori soggetti a rigidi disciplinari a salvaguardia della qualità dei loro prodotti nonché a tutelare i consumatori che si aspettano di comprare un prodotto qualitativamente superiore ovvero oggetto di particolari procedimenti produttivi.

L’ordinamento interno con il d.lgs. n. 297/2004 e quello comunitario con il Reg. CE n. 510/2006 poi sostituito dal Reg. UE 1153/2012 e il Reg. CE 110/2008 nonché la giurisprudenza nazionale ed europea hanno contribuito nel tempo a delineare le definizioni e la casistica entro cui ricomprendere il concetto di evocazione. Su questo tema, è stata recentemente introdotta una novità con la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 02 maggio 2019, relativa alla causa C- 614/17, sul prodotto caseario “Queso Manchego”. Detta pronuncia ha esteso il concetto di evocazione non più solamente a segni grafici richiamanti il prodotto protetto da denominazione d’origine ovvero denominazioni con prefissi, suffissi, pronuncia fonetica simile a quelle protette, bensì anche a segni grafici in etichetta riconducibili alla regione associata alla denominazione, ancorché ad utilizzarli sia un produttore della medesima regione che, però, non benefici della denominazione d’origine registrata.

La causa veniva instaurata su ricorso al giudice spagnolo ad opera della Fondazione Queso Manchego, organismo incaricato della gestione e della protezione della DOP “queso manchego”, contro la società Impresa Quesera Cuquerella (ICQ). Quest’ultima utilizzava etichette per identificare e commercializzare i formaggi «Adarga de Oro», «Super Rocinante» e «Rocinante», che richiamavano la zona della Mancha ove essi venivano prodotti. Tuttavia, la Fondazione Queso Manchego, con sede proprio nella regione della Mancha, sosteneva che le etichette di tali formaggi (non protetti dalla DOP “queso manchego”) nonché l’utilizzo dei termini «Quesos Rocinante» implicassero una violazione della suddetta DOP. La Fondazione sosteneva che tali etichette e tali termini costituissero un’evocazione illegittima di detta DOP, ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 1, lettera b), del Reg. CE n. 510/2006 che stabiliva: “qualsiasi usurpazione, imitazione o evocazione, anche se l’origine vera del prodotto è indicata o se la denominazione protetta è una traduzione o è accompagnata da espressioni quali ‘genere’, ‘tipo’, ‘metodo’, ‘alla maniera’, ‘imitazione’ o simili”.

Dopo varie vicissitudini processuali, la causa veniva esaminata dal Tribunal Supremo (la Corte Suprema spagnola) che sospendeva il procedimento sottoponendo alla Corte di Giustizia Dell’Unione Europea tre questioni pregiudiziali. Con la prima questione si chiedeva alla Corte di Lussemburgo se, in base all’articolo sopra riportato, oltre a denominazioni che presentassero somiglianza visiva, fonetica e concettuale con la DOP, anche segni figurativi (immagini) fossero idonei a costituire evocazione della DOP e pertanto lesivi della stessa. Con la seconda questione interrogava la Corte sulla possibilità che segni richiamanti la regione cui è associata la DOP costituissero evocazione, se utilizzati da parte di produttori operanti nella medesima regione della denominazione d’origine ma i cui prodotti, sebbene simili a quelli protetti dalla denominazione d’origine, ne fossero esclusi. Invece, l’ultima questione verteva sui parametri da utilizzare per identificare il consumatore medio normalmente informato, in quanto il giudice nazionale deve tenerne in considerazione le conoscenze nel determinare la sussistenza dell’evocazione.

La Corte di Giustizia, introducendo un elemento di novità rispetto alla giurisprudenza sino ad allora costante, si pronunciava in senso affermativo con riguardo alla prima questione. Invero, secondo la Corte, ai sensi dell’art. 13 del Reg. 510/2006, i beni beneficianti di denominazione d’origine sono protetti da qualsiasi tipologia di evocazione. Di conseguenza, non è possibile tipizzare i casi di evocazione ammessa ma, nell’analisi della fattispecie, il giudice nazionale adito dovrà accertare se l’elemento sospetto di evocazione, a prescindere dalla sua natura, possa richiamare direttamente nella mente del consumatore, come immagine di riferimento, il prodotto che beneficia della denominazione d’origine che si assume lesa.

Ciò che rileva è dunque il carattere falso e ingannevole delle varie indicazioni che possono essere fornite per “sviare” il consumatore e non, invece, gli elementi da considerare per determinare l’esistenza di siffatte indicazioni false e ingannevoli, posto che, appunto, la formulazione del testo regolamentare è volutamente generica, proprio al fine di ricomprendere qualsiasi modalità idonea a dar luogo ad evocazione.

Inoltre, il giudice europeo ha effettuato un ulteriore passo avanti nella tutela delle denominazioni d’origine. Infatti, rispondendo al secondo quesito posto dalla Suprema Corte spagnola, la Corte di Giustizia ha affermato il principio per cui la formulazione generica della disposizione regolamentare sull’evocazione impedisce di operare deroghe per i produttori di prodotti simili non ricompresi nella denominazione, ancorché operanti nel medesimo territorio. La Corte specifica che il giudice nazionale deve andare oltre l’elemento della provenienza del produttore e valutare concretamente caso per caso, sulla scorta dell’insieme dei segni figurativi e denominativi, la sussistenza del nesso diretto e univoco tra gli elementi controversi e la denominazione registrata. In questo caso, la Corte opera un rafforzamento di tutela nei confronti delle denominazioni d’origine, in quanto non ancora più la protezione solamente ai parametri di similarità del prodotto in una prospettiva di concetto, dicitura, fonetica ma, addirittura, il richiamo improprio della regione geografica cui è legata la denominazione geografica è oggi idonea a costituire una pratica lesiva nei confronti della denominazione protetta.

Infine, in merito all’ultima questione riguardante la determinazione delle caratteristiche del consumatore, è interessante osservare come la Corte si avvalga per analogia di una disposizione prevista dal Reg. CE 110/2008, emanato a protezione delle indicazioni geografiche delle bevande spiritose (bevande alcoliche), che sono dotate di una disciplina particolare, seppure molto simile a quella prevista per gli alimenti. La novità nella concezione di consumatore risiede nel fatto che il giudice nazionale nel valutare l’”evocatività” degli elementi controversi, dovrà utilizzare come parametro le conoscenze del consumatore medio europeo, inteso quale cittadino di un qualsiasi stato membro e non le normali conoscenze del cittadino dello stato membro in cui ha sede la denominazione d’origine. Così facendo, la Corte di Giustizia ha provveduto a tutelare in modo più pregnante l’affidamento dei consumatori nei confronti delle informazioni che gli vengono fornite.

In conclusione, questa recente pronuncia apre nuove prospettive in tema di evocazione che dovranno essere tenute in considerazione in primis dalle imprese operanti nel settore. Ad esempio, nel lanciare sul mercato un nuovo prodotto sarà necessario verificare non solo il nome e/o i segni grafici in etichetta tali che non richiamino prodotti protetti da denominazioni d’origine, ma anche immagini o loghi che non richiamino una regione associata ad una denominazione d’origine, ancorché il produttore operi in tale specifica zona ma non rispetti il disciplinare della denominazione d’origine. Pertanto, le scelte di marketing aziendali sul tema dovranno essere preliminarmente vagliate anche a livello giuridico onde verificarne l’ammissibilità e la legittimità.

Lo studio legale A & R Avvocati Rechtsanwälte rimane a Vostra disposizione per la consulenza giuridica circa tutti gli aspetti della tutela dei Vostri prodotti e relativi marchi e/o denominazioni corrette per fornirvi un’assistenza all around nel settore.

Avv. Diana Tommasin