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Il controllo giurisdizionale della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato.

Corte di Giustizia Europea, Grande Sezione, Sentenza 21 dicembre 2021.

Le annose questioni relative all’intersecarsi tra la giurisdizione amministrativa e quella ordinaria hanno trovato un’ulteriore declinazione nella vicenda qui in commento, ove ci si è spinti sino ad interrogarsi circa la possibilità di riconoscere competente l’organo giurisdizionale supremo nazionale  ad esercitare un controllo di tutela giurisdizionale sulle sentenze pronunciate dal supremo organo della giustizia amministrativa nazionale, per garantire la tutela giurisdizionale effettiva richiesta dal diritto dell’Unione europea.

La vicenda in esame trae origine da una procedura di gara per un appalto pubblico da aggiudicare in base al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, con previsione di una soglia di sbarramento per le offerte tecniche, in cui una delle partecipanti veniva esclusa, senza neppure essere ammessa alla fase successiva antecedente l’aggiudicazione finale, poiché la sua offerta aveva ottenuto un punteggio inferiore a quello corrispondente alla predetta soglia di sbarramento.

La partecipante esclusa ricorreva dapprima al Tribunale amministrativo regionale competente, contestando, da un lato, la propria esclusione e dall’altro, la regolarità della procedura. Il TAR adito, ritenuto che la ricorrente avesse legittimamente partecipato alla gara e ne fosse stata esclusa a causa della valutazione negativa dell’offerta, pronunciandosi dunque per l’ammissibilità del ricorso, valutava nel merito i motivi addotti, respingendoli integralmente.

In seguito, la partecipante esclusa proponeva appello innanzi al Consiglio di Stato, che, sempre muovendo dall’avvenuta esclusione, non solo respingeva nel merito l’appello proposto, ma addirittura riformava la pronuncia del TAR ritenendo l’appellante neppure legittimata a contestare nel merito gli esiti della gara. Più precisamente, l’appellante, poiché esclusa per non aver ottenuto il punteggio minimo richiesto dalla soglia di sbarramento e, non essendo stata in grado di dimostrare l’illegittimità della gara quanto all’attribuzione del predetto punteggio, di per sé era portatrice di un mero interesse di fatto, analogo a quello di qualunque altro operatore economico del settore non partecipante alla gara.

Avverso tale ultima pronuncia, la partecipante esclusa proponeva ricorso innanzi alla Corte suprema di Cassazione, lamentando la violazione del diritto ad un ricorso effettivo, di cui all’art. 1 della direttiva 89/665 e sostenendo che tale circostanza costituisse uno dei motivi inerenti alla giurisdizione ex art. 111 comma 8 Cost., per i quali è previsto il ricorso in Cassazione contro le decisioni del Consiglio di Stato.

Innanzi a tale eccezione, veniva adita la Corte di Giustizia Europea ed il giudice del rinvio interrogava l’organismo europeo proprio sulla questione relativa alla possibilità di ricorrere alla Suprema Corte nazionale per tutelare il diritto ad un ricorso effettivo, nonostante la giurisprudenza della Corte Costituzionale italiana, sent. n. 6/2018, abbia stabilito che, allo stato, non sia ammissibile equiparare un motivo vertente su una violazione del diritto dell’Unione a un motivo inerente alla giurisdizione, ai sensi dell’art. 111 comma 8 Cost.

Al fine di risolvere la questione prospettatale, la Corte di Giustizia Europea, muove innanzitutto dall’individuazione precisa della normativa europea di interesse, estrapolandone i principi rilevanti e analizzando dettagliatamente la riconducibilità del sistema di tutela giurisdizionale offerto dallo Stato membro al diritto sovranazionale, così come interpretato dalla Corte.

Per quanto concerne la normativa applicabile al caso di specie, la Corte richiama l’art. 4, paragrafo 3 3 l’art. 19, paragrafo 1 TUE, nonché l’art. 1, paragrafi 1 e 3, della direttiva 89/665, letto alla luce dell’art. 47 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea.

In merito all’art. 19 paragrafo 1 TUE, questo obbliga tutti gli Stati membri a stabilire rimedi giurisdizionali necessari per assicurare ai singoli, nei settori disciplinati dall’Unione Europea, il rispetto del loro diritto a una tutela giurisdizionale effettiva. Ciò detto, il legislatore europeo lascia ampia discrezionalità agli Stati membri circa l’individuazione dei rimedi processuali e giurisdizionali attraverso i quali attuare tale principio, salvo sempre il possibile vaglio da parte della Corte di Giustizia.

Una volta accertata, dunque, la possibilità in linea di massima degli Stati membri di poter organizzare la tutela giurisdizionale in maniera discrezionale, ivi inclusa dunque anche la previsione di un sistema di preclusioni per l’impugnazione delle decisioni del supremo organo della giustizia amministrativa da parte del supremo organo della giustizia ordinaria, la Corte analizza l’idoneità del sistema italiano a garantire la tutela del diritto ad un ricorso effettivo di matrice unionale, attraverso il vaglio della conformità ai principi di equivalenza ed effettività.

Per quanto riguarda il principio di equivalenza, la Corte rileva che l’art. 111 comma 8 Cost. limita, con le stesse modalità, la possibilità di ricorrere in Cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato, indipendentemente dal fatto che tali ricorsi siano basati sulla violazione della normativa nazionale o del diritto dell’Unione.

Con riferimento al principio di effettività, la Corte evidenzia che il diritto dell’Unione europea non obbliga gli Stati membri a istituire mezzi di ricorso ulteriori a quelli già esistenti, salvo che il sistema renda impossibile o estremamente difficile l’effettiva tutela dei diritti accordati a livello sovranazionale. Nel sistema italiano, però, la tutela giuridica dei diritti garantiti dall’Unione Europea viene comunque consentita, essendovi un giudice precostituito per legge, nonché la previsione dettagliata dei rimedi giurisdizionali esperibili.

Inoltre, un obbligo nel senso di istituire nuovi rimedi giurisdizionali non può neppure essere ravvisato nell’art. 4, paragrafo 3 TUE, ove si prescrive agli Stati membri di adottare ogni misura di carattere generale e particolare volta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle Istituzioni dell’Unione, dovendo ritenersi soddisfatto tale requisito ove i rimedi già esistenti appaiano idonei al raggiungimento di tale scopo.

Con riferimento alla norma di cui all’art. 1, paragrafo 1 della direttiva 89/665, letta alla luce dell’art. 47 della Carta, anche tale requisito pare essere del tutto soddisfatto, attesa la sussistenza di un giudice precostituito per legge al quale i singoli possono facilmente rivolgersi, non potendosi rinvenire, come già riferito, un divieto per lo Stato di prevedere limitazioni in ordine a ulteriori valutazioni sulle decisioni del supremo organo della giustizia amministrativa.

Alla luce delle motivazioni sopra esposte, dunque, la Corte di Giustizia Europea concludeva dunque per la legittimità del sistema di preclusione individuato ai sensi dell’art. 111 comma 8 Cost., così come interpretato dalla giurisprudenza nazionale, non ravvisando nessuna lesione del diritto ad un’effettiva tutela, ove impedita la possibilità di ricorrere al supremo organo della giurisdizione amministrativa avverso ad una decisione del Consiglio di Stato.

Ciò detto, la Corte opera però una valida censura alle decisioni adottate sia dal TAR che dal Consiglio di Stato, cogliendo nuovamente l’occasione per ribadire la portata del concetto di “partecipante escluso”. Ed infatti, l’esclusione ad una gara per un appalto pubblico ai sensi del diritto europeo, non può e non deve essere determinata dal semplice mancato raggiungimento di eventuali criteri richiesti, bensì  l’esclusione di un offerente è definitiva, sino a quel momento ancora sussistendo dunque un vero e proprio interesse legittimo, se l’esclusione stessa è stata comunicata ed è stata ritenuta legittima da un organo di ricorso indipendente o se non può più essere oggetto di una procedura di ricorso.

Avv. Valentina Preta

Un importante chiarimento sulla possibilità di utilizzare sedimenti di alghe marine nella trasformazione degli alimenti bioligici con ingredienti non biologici di origine agricola

Con riferimento alla tematica del metodo di produzione biologica ed etichettatura, la Corte di Giustizia (C-815/19 – sent. CGUE del 29 aprile 2021) si è recentemente pronunciata su un caso che coinvolgeva un’azienda tedesca, la Natumi GmbH, che produceva bevande vegetali biologiche di soia e di riso, usando nella loro trasformazione un ingrediente non biologico costituito dai sedimenti essiccati e macinati di un’alga, il Lithotaminium calcareum, per arricchire le suddette bevande di calcio. Detta società, etichettava comunque detto prodotto come biologico.

Detta pratica veniva contestata dal Land Renania settentrionale-Vestfalia. In particolare, veniva contestato l’utilizzo di un minerale derivato da un’alga e ritenuto vietato nel processo di trasformazione di un prodotto biologico sulla scorta delle norme di settore con la conseguente erronea etichettatura.

La causa avviata dal Land tedesco proseguiva fino a giungere avanti il Bundesverwaltungsgericht. Quest’ultimo riteneva che l’esito della controversia dipendesse dall’interpretazione del Reg. CE n. 889/2008, inerente alle modalità di applicazione del Reg. CE n. 834/2007 recante le norme sul processo di produzione biologica, e procedeva a sospendere il procedimento, sottoponendo alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (“CGUE”), ex art. 267 TFUE, le seguenti questioni, l’una logicamente consequenziale all’altra:

  1. Se l’art. 28 del Reg. CE n. 889/2008, disciplinante l’uso di determinati ingredienti non biologici di origine agricola nella trasformazione degli alimenti, in combinato disposto con l’Allegato IX, punto 1.3 del medesimo regolamento, debba essere interpretato nel senso da consentire l’utilizzo dell’alga in questione come ingrediente nei prodotti biologici;
  2. In caso di risposta affermativa al primo quesito, se sia permesso anche l’utilizzo di alghe morte;
  3. In caso di risposta affermativa al secondo quesito, se un prodotto contenente Lithotaminium calcareum e classificato come “bio”, potesse presentare in etichetta anche il claim “con calcio”, “con alga marina ricca di calcio”, “con calcio di alta qualità derivato dall’alga marina Lithotaminium.

Nella sentenza dello scorso aprile, la CGUE afferma che nei confronti del punto 1.3 dell’Allegato IX al Reg. CE n. 889/2008 bisogna ricomprendere anche le alghe marine. Esse possono essere considerate un prodotto vegetale non trasformato ergo un ingrediente agricolo e non un minerale, come invece sostenuto dal Land Renania settentrionale-Vestfalia. Astrattamente, il Lithotaminium potrebbe dunque essere utilizzato nella trasformazione dei prodotti biologici.

Tuttavia, la CGUE ribadisce come l’utilizzo di ingredienti agricoli non biologici debba essere subordinato all’applicazione dell’art. 19 nonché all’autorizzazione ai sensi dell’art. 21 del Reg. CE n. 834/2007 e, pertanto, l’art. 28 del Reg. CE n. 889/2008 e l’Allegato IX devono essere interpretati proprio sulla base della suddetta autorizzazione.

Di conseguenza, nonostante la classificazione del Lithotaminium quale ingrediente agricolo, l’interpretazione dell’art. 21 del Reg. CE 834/2007 in combinato disposto all’interpretazione dell’art. 28 del Reg. CE 889/2008 osta all’utilizzo di una polvere ottenuta dai sedimenti dell’alga in questione in quanto la stessa non risulta indispensabile per la produzione o conservazioni delle bevande di riso e di soia prodotte dalla Natumi GmbH né tale ingrediente consente di garantire il rispetto dei requisiti dietetici di base previsti dalla normativa unionale.

Infatti, la CGUE specifica altresì che, se si consentisse l’uso del Lithotaminium nel processo di trasformazione dei prodotti biologici solamente sulla scorta dell’art. 28 del Reg CE n. 889/2008, si rischierebbe di eludere il divieto di cui agli artt. 19 e 21 del Reg. CE 834/2007 andando a rendere inoperanti le rigorose regole previste in materia di produzione biologica.

In conclusione, la CGUE, affermando che la polvere ottenuta da sedimenti dell’alga marina Lithotaminium, ingrediente non biologico di origine agricola, non è utilizzabile nelle bevande biologiche di soia e riso ai fini del loro arricchimento in calcio, risponde negativamente ai tre quesiti posti dal Bundesverwaltungsgericht, avallando, sebbene con argomentazioni differenti, la posizione del Land tedesco.

Questa pronuncia della CGUE va ulteriormente a chiarire che il processo di produzione biologico debba essere rigorosamente rispettato in tutte le sue norme, lungo tutta la filiera, al fine di perseguire l’essenziale scopo di sostenibilità ambientale, utilizzando un corretto uso dei claims alimentari e riportando una corretta etichettatura a tutela della fiducia dei consumatori.

Per apprezzare nella loro interezza le argomentazioni della CGUE qui semplificate per una più facile fruizione del lettore, si consiglia la lettura della sentenza di cui ai link sottostanti, in italiano e in tedesco:

Sentenza in lingua italiana

Sentenza in lingua tedesca

Avv. Diana Tommasin

La doppia imposizione internazionale dei redditi: fino a che punto può considerarsi legittima?

La mobilità di persone e capitali è un fenomeno che se pur da sempre ha caratterizzato il percorso storico evolutivo dell’uomo, nell’ultimo secolo ha conosciuto un incremento esponenziale, soprattutto grazie all’apertura delle frontiere tra i paesi membri dell’Unione Europea.

Le relazioni economiche tra diversi Stati, pur se utili per accrescere il benessere dell’intera collettività e garantire una maggior efficienza del mercato concorrenziale, hanno d’altro canto ingenerato questioni di non facile e pronta risoluzione, soprattutto legate a conflitti in materia di potestà impositiva fiscale. Sul punto, pare opportuno chiedersi cosa si intende per “doppia imposizione fiscale” e soprattutto quali sono i rimedi per impedire che uno stesso reddito possa essere tassato più volte da diversi Stati. Una simile situazione si genera solitamente quando si è in presenza delle pretese avanzate da parte di diversi Stati circa una medesima fattispecie imponibile, a causa della convergenza dei diversi criteri coinvolti per la determinazione dell’imposizione fiscale stessa: il criterio reale, relativo alla tipologia di reddito, quello territoriale e quindi connesso al luogo di produzione del reddito stesso, nonché quello personale, in forza del quale un reddito è tassato in capo alla persona residente in quel dato Stato, a prescindere da dove sia stato prodotto.

Si prenda ad esempio il reddito da lavoro dipendente, questo, stante la normativa vigente, dovrebbe essere tassato sia nel paese di residenza del dichiarante che nel Paese di produzione del reddito. Una tale conseguenza appare di per sé non solo iniqua, ma altresì controproducente e non in linea con un mercato del lavoro sempre più flessibile e delocalizzato. Il fenomeno della doppia imposizione fiscale poi, investe moltissimi altri settori, come ad esempio i dividendi, gli interessi, i redditi da stabile organizzazione, i redditi da lavoro autonomo, le royality, e molti altri ancora, tanto da rappresentare un concreto e serio rischio quotidiano per tutti gli operatori nel mercato internazionale.

Al fine di evitare le nefaste conseguenze che un’applicazione rigida della normativa fiscale potrebbe produrre, a livello internazionale gli Stati hanno cercato di fornire un primo rimedio attraverso le c.d Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate tra diversi paesi sia all’interno della zona UE che extra UE. In linea di massima, tali convenzioni prevedono una serie di disposizioni volte ad evitare che un dato reddito venga sottoposto a duplice tassazione, anche se queste non sono del tutto idonee a ricoprire l’ampia e svariata gamma di casistiche in cui un fenomeno del genere si può verificare. E non solo. Anche ove presenti convenzioni ad hoc, molto spesso sorgono conflitti circa l’interpretazione della medesima norma convenzionale da parte delle diverse amministrazioni finanziarie, senza tralasciare la circostanza per cui le Corti dei singoli stati spesso forniscono letture contrastanti tra di loro del medesimo fenomeno giuridico.

In simili ipotesi, infatti, lungi dal rappresentare le Convenzioni internazionali uno strumento di ausilio, le stesse rischiano di costituire di per sé un vero e proprio ulteriore ostacolo, per superare il quale si richiede una preparazione che vada ben oltre la sola capacità di conoscenza del proprio diritto nazionale, ma che comprenda anche una visione d’insieme dell’apparato burocratico amministrativo, nonché ordinamentale dell’altro Stato coinvolto. Infatti, solo attraverso un’equiparazione tra i differenti ordinamenti, la conoscenza approfondita di un eventuale convenzione internazionale siglata tra gli stessi, nonché dei sistemi coinvolti, sia nazionale che straniero, si può giungere ad una disamina quanto più precisa della situazione così da evitare di veder tassato il proprio medesimo reddito in due diversi Stati, senza nulla poter opporre.

Ed invero, proprio la dimestichezza e la capacità di sapersi muovere in diversi sistemi ordinamentali molto spesso rappresenta la chiave per evitare fenomeni di doppia imposizione, anche e soprattutto quando è del tutto assente una specifica convenzione internazionale. A titolo di esempio, attesa anche l’esperienza maturata dal nostro Studio nel settore, si può rappresentare lo scenario molto comune di apertura di successione ereditaria di soggetto residente in Italia, con beni in Italia e proprietario di uno o più immobili in Germania. In tale ipotesi, ai sensi della normativa applicabile, considerato che non esiste nessuna Convenzione sul punto, la tassa di successione dovrebbe imporsi sui beni in Italia, ai sensi della normativa nazionale, in forza sia del criterio della residenza che quelli territoriale e reali. Per quanto concerne il profilo tedesco poi, la legislazione tedesca prevede che la tassa di successione debba essere calcolata sull’integrità del patrimonio riferibile al decuius, anche quello sito all’estero, se questi risultava residente (Wohnsitz) in Germania, sempre ai sensi della normativa di riferimento.

Quest’ultima previsione può di per sé legittimare una doppia imposizione fiscale, atteso che Il concetto di residenza è di per sé molto ampio e la Giurisprudenza teutonica ha nel tempo teso ad estenderlo sino a ricomprendervi l’ipotesi in cui ci si recasse nell’immobile sito in Germania anche solo due volte l’anno. Una simile situazione potrebbe così comportare il rischio per gli eredi di veder tassati i medesimi beni, sia in Italia che in Germania, secondo anche parametri impositivi molto diversi tra loro, con oneri insostenibili da affrontare.

E dunque, cosa fare? Come detto, infatti, non vi è nessun rimedio convenzionale a cui ricorrere che apporti ufficialmente un correttivo a tale distorsione del sistema. Proprio in casi del genere, si rivela decisiva l’approfondita conoscenza del diritto interno soprattutto tedesco, che a determinate condizioni consente di evitare il fenomeno impositivo soprattutto sulla scorta dell’interpretazione giurisprudenziale del concetto di “Wohnsitz.”

In sostanza, la carta vincente rimane sempre costituita una consulenza attenta, dedicata ed esperta, come quella che il nostro studio offre ogni giorno a coloro che decidono di rivolgersi al nostro gruppo di professionisti.

Avv. Valentina Preta

Sospensione della certificazione biologica, che fare?

Competenza giurisdizionale in caso di richiesta risarcimento danni a seguito del provvedimento di sospensione della Certificazione di operatore biologico.

Una recentissima sentenza del TAR dell’Emilia-Romagna è nuovamente intervenuta sulla controversa questione circa la competenza giurisdizionale in merito all’impugnazione dei provvedimenti di Sospensione della Certificazione ovvero di Soppressione delle certificazioni bio, adottate dall’Organo di Controllo (O.d.C.).

I fatti oggetto di causa vedevano un operatore del settore biologico citare avanti il Giudice Amministrativo l’O.d.C. che aveva effettuato i controlli annuali sui suoi appezzamenti coltivati a biologico. L’operatore contestava le risultanze dei suddetti controlli nonché le sanzioni irrogate dall’ O.d.C., consistenti nella sospensione della certificazione nonché nel ricalcolo del periodo di conversione, chiedendo al Giudice l’annullamento dei provvedimenti assunti nei suoi confronti dall’O.d.C. nonché richiedere il risarcimento dei danni. Nella sua pronuncia, il giudice amministrativo compie una serie di rilievi sotto il profilo giuridico e giurisprudenziale tali da ribadire che il rapporto intercorrente tra l’O.d.C. e l’operatore nel settore biologico ha carattere privatistico e, pertanto, sarà il Giudice Ordinario a dover conoscere delle controversie insorgenti tra le predette parti. Il TAR dell’Emilia-Romagna fonda la propria decisione operando un’analogia tra il rapporto sussistente tra l’ANAC (Autorità Nazionale Anticorruzione) e la SOA (Società Organismo di Attestazione) a quello intercorrente tra il MIPAAF (Ministero delle Politiche Agricole e Forestali) e l’O.d.C., nonché il rapporto tra la SOA e l’impresa di costruzioni al rapporto che lega l’O.d.C. e l’operatore biologico. Il Giudice amministrativo sostiene infatti che tra i suddetti enti e soggetti sussistano dei rapporti della medesima natura. Invero, come tra l’ANAC e la SOA sussisterebbe un rapporto di natura pubblicistica per cui l’ANAC avrebbe potere di autorizzazione, controllo e vigilanza sulla SOA, così sussisterebbe un rapporto analogo tra il MIPAAF e O.d.C. Ciò deriverebbe dal fatto che il Reg. CE 834/2007 designava appunto il MIPAAF quale ente responsabile per l’organizzazione dei controlli della produzione biologica nonché delle funzioni di vigilanza sugli organismi di controllo da quest’ultima accreditati. Tra MIPAAF e O.d.C. sussiste dunque un rapporto di natura pubblicistica di accreditamento, controllo e vigilanza del primo nei confronti del secondo. Invece, tra la SOA e l’impresa di costruzione sussisterebbe un rapporto di tipo privatistico scaturente dalla sottoscrizione ad opera delle parti di un contratto. Sulla base di tale accordo, le imprese di costruzione corrispondono un compenso alla SOA per l’attività di attestazione dei requisiti necessari per il rilascio delle relative certificazioni. È evidente come il rapporto intercorrente tra i predetti soggetti sia caratterizzato da prestazioni corrispettive e le parti siano titolari di diritti soggettivi con la conseguente giurisdizione del Giudice Ordinario. Parimenti, anche tra l’O.d.C. e l’operatore biologico sussisterebbe un rapporto di diritto privato. Invero, l’O.d.C. è un ente di natura privatistica e le attività che esso svolge nei confronti dell’operatore biologico sono regolate da un contratto. In particolare, all’O.d.C. viene corrisposto un compenso dall’operatore biologico per verificare il rispetto della normativa (europea e nazionale) in materia di biologico al fine di consentire all’operatore di fregiarsi di tale certificazione. Inoltre, l’O.d.C. in virtù del suddetto rapporto può rilasciare la dovuta documentazione nonché applicare sanzioni nel caso in cui, a seguito dei controlli effettuati su base annuale, riscontrasse delle non conformità. Il vincolo contrattuale che lega l’O.d.C. all’operatore biologico è dunque un rapporto a prestazioni corrispettive di natura privatistica, sebbene a carattere vincolato. Infatti, l’O.d.C. deve esercitare le attività stabilite contrattualmente con l’operatore ma nei limiti delle attività per le quali è stato accreditato dal MIPAAF.

Inoltre, il Tar dell’Emilia-Romagna fonda la competenza giurisdizionale del Giudice Ordinario per le controversie scaturenti tra O.d.C. ed operatore biologico anche su un ulteriore assunto. Nello svolgimento della loro attività di controllo, gli O.d.C., devono dotarsi di un “organo collegiale” per la definizione delle controversie insorgenti tra gli O.d.C. e gli operatori. In particolare, le pronunce dei suddetti organi hanno natura di lodo arbitrale, come specificamente previsto dalla normativa in materia nonché dalla clausola compromissoria, che viene sempre inserita nel contratto di sottoposizione al controllo sottoscritto dalle parti. Sul punto il TAR osservava che, posto che il legislatore assoggettava una determinata materia alla competenza arbitrale, ciò significa che la res contenziosa debba per forza aver avuto ad oggetto dei diritti disponibili, il cui sindacato appartiene alla competenza del Giudice Ordinario, e non siano perciò qualificabili come interessi soggettivi, il cui sindacato spetterebbe invece al Giudice Amministrativo.

Infine, a chiusura delle sue argomentazioni, il Giudice Amministrativo ribadisce l’orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione, che era intervenuta, già nella primavera del 2019, a dirimere il conflitto giurisprudenziale sorto sul punto (cfr. Cass. Civ., Sez. Un., n. 9678/2019).

Il TAR dell’Emilia-Romagna si conforma all’orientamento della Suprema Corte che, in contraddizione a quanto affermato in precedenza dal Consiglio di Stato, sosteneva che il rapporto tra O.d.C ed operatori abbia ad oggetto diritti soggettivi e rientri pertanto nella giurisdizione del Giudice Ordinario. Infatti, come poi ripreso anche dal TAR, l’Organo Nomofilattico evidenziava che gli O.d.C., sotto il profilo soggettivo, sono soggetti di diritto privato, non assumono le vesti della P.A., né partecipano all’esercizio di un pubblico potere svolgendone un ufficio. Invece, essi esercitano solamente un’attività ausiliaria di carattere tecnico scientifico, sotto sorveglianza del MIPAAF. Peraltro, detta attività viene svolta nei confronti dell’operatore sulla scorta di un contratto, instaurando un rapporto oggettivamente privatistico con quest’ultimo.

In conclusione, sulla scorta delle argomentazioni sopra riportate, il TAR Emilia-Romagna ritiene di non dare seguito al conflitto giurisprudenziale risolto lo scorso anno dalle Sezioni Unite, ribadendo la giurisdizione del Giudice Ordinario nelle controversie tra O.d.C. e operatore del settore biologico, il cui rapporto è squisitamente privatistico sia sotto il profilo soggettivo che sotto il profilo oggettivo.

Avv. Diana Tommasin

 

 

Novità in tema di evocazione

Il fenomeno dell’evocazione è ben conosciuto da produttori beneficiari di denominazione d’origine registrata che, per mezzo di consorzi a protezione di DOP ed IGP, hanno il difficile compito di controllare e denunciare eventuali comportamenti scorretti dei produttori concorrenti che imitino, usurpino od evochino i prodotti a denominazione d’origine, senza rispettare il disciplinare che li regolamenta.

Nello specifico, ai sensi del Reg. UE 1153/2012, con il termine evocazione si intende la pratica commerciale scorretta capace di suscitare nel consumatore l’idea che quel prodotto abbia le stesse caratteristiche e qualità del prodotto a denominazione registrata o che sia esso stesso prodotto a denominazione registrata. La repressione di “pratiche evocative” ha dunque la finalità di tutelare la qualità dei prodotti a denominazione d’origine, tutelare i produttori soggetti a rigidi disciplinari a salvaguardia della qualità dei loro prodotti nonché a tutelare i consumatori che si aspettano di comprare un prodotto qualitativamente superiore ovvero oggetto di particolari procedimenti produttivi.

L’ordinamento interno con il d.lgs. n. 297/2004 e quello comunitario con il Reg. CE n. 510/2006 poi sostituito dal Reg. UE 1153/2012 e il Reg. CE 110/2008 nonché la giurisprudenza nazionale ed europea hanno contribuito nel tempo a delineare le definizioni e la casistica entro cui ricomprendere il concetto di evocazione. Su questo tema, è stata recentemente introdotta una novità con la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 02 maggio 2019, relativa alla causa C- 614/17, sul prodotto caseario “Queso Manchego”. Detta pronuncia ha esteso il concetto di evocazione non più solamente a segni grafici richiamanti il prodotto protetto da denominazione d’origine ovvero denominazioni con prefissi, suffissi, pronuncia fonetica simile a quelle protette, bensì anche a segni grafici in etichetta riconducibili alla regione associata alla denominazione, ancorché ad utilizzarli sia un produttore della medesima regione che, però, non benefici della denominazione d’origine registrata.

La causa veniva instaurata su ricorso al giudice spagnolo ad opera della Fondazione Queso Manchego, organismo incaricato della gestione e della protezione della DOP “queso manchego”, contro la società Impresa Quesera Cuquerella (ICQ). Quest’ultima utilizzava etichette per identificare e commercializzare i formaggi «Adarga de Oro», «Super Rocinante» e «Rocinante», che richiamavano la zona della Mancha ove essi venivano prodotti. Tuttavia, la Fondazione Queso Manchego, con sede proprio nella regione della Mancha, sosteneva che le etichette di tali formaggi (non protetti dalla DOP “queso manchego”) nonché l’utilizzo dei termini «Quesos Rocinante» implicassero una violazione della suddetta DOP. La Fondazione sosteneva che tali etichette e tali termini costituissero un’evocazione illegittima di detta DOP, ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 1, lettera b), del Reg. CE n. 510/2006 che stabiliva: “qualsiasi usurpazione, imitazione o evocazione, anche se l’origine vera del prodotto è indicata o se la denominazione protetta è una traduzione o è accompagnata da espressioni quali ‘genere’, ‘tipo’, ‘metodo’, ‘alla maniera’, ‘imitazione’ o simili”.

Dopo varie vicissitudini processuali, la causa veniva esaminata dal Tribunal Supremo (la Corte Suprema spagnola) che sospendeva il procedimento sottoponendo alla Corte di Giustizia Dell’Unione Europea tre questioni pregiudiziali. Con la prima questione si chiedeva alla Corte di Lussemburgo se, in base all’articolo sopra riportato, oltre a denominazioni che presentassero somiglianza visiva, fonetica e concettuale con la DOP, anche segni figurativi (immagini) fossero idonei a costituire evocazione della DOP e pertanto lesivi della stessa. Con la seconda questione interrogava la Corte sulla possibilità che segni richiamanti la regione cui è associata la DOP costituissero evocazione, se utilizzati da parte di produttori operanti nella medesima regione della denominazione d’origine ma i cui prodotti, sebbene simili a quelli protetti dalla denominazione d’origine, ne fossero esclusi. Invece, l’ultima questione verteva sui parametri da utilizzare per identificare il consumatore medio normalmente informato, in quanto il giudice nazionale deve tenerne in considerazione le conoscenze nel determinare la sussistenza dell’evocazione.

La Corte di Giustizia, introducendo un elemento di novità rispetto alla giurisprudenza sino ad allora costante, si pronunciava in senso affermativo con riguardo alla prima questione. Invero, secondo la Corte, ai sensi dell’art. 13 del Reg. 510/2006, i beni beneficianti di denominazione d’origine sono protetti da qualsiasi tipologia di evocazione. Di conseguenza, non è possibile tipizzare i casi di evocazione ammessa ma, nell’analisi della fattispecie, il giudice nazionale adito dovrà accertare se l’elemento sospetto di evocazione, a prescindere dalla sua natura, possa richiamare direttamente nella mente del consumatore, come immagine di riferimento, il prodotto che beneficia della denominazione d’origine che si assume lesa.

Ciò che rileva è dunque il carattere falso e ingannevole delle varie indicazioni che possono essere fornite per “sviare” il consumatore e non, invece, gli elementi da considerare per determinare l’esistenza di siffatte indicazioni false e ingannevoli, posto che, appunto, la formulazione del testo regolamentare è volutamente generica, proprio al fine di ricomprendere qualsiasi modalità idonea a dar luogo ad evocazione.

Inoltre, il giudice europeo ha effettuato un ulteriore passo avanti nella tutela delle denominazioni d’origine. Infatti, rispondendo al secondo quesito posto dalla Suprema Corte spagnola, la Corte di Giustizia ha affermato il principio per cui la formulazione generica della disposizione regolamentare sull’evocazione impedisce di operare deroghe per i produttori di prodotti simili non ricompresi nella denominazione, ancorché operanti nel medesimo territorio. La Corte specifica che il giudice nazionale deve andare oltre l’elemento della provenienza del produttore e valutare concretamente caso per caso, sulla scorta dell’insieme dei segni figurativi e denominativi, la sussistenza del nesso diretto e univoco tra gli elementi controversi e la denominazione registrata. In questo caso, la Corte opera un rafforzamento di tutela nei confronti delle denominazioni d’origine, in quanto non ancora più la protezione solamente ai parametri di similarità del prodotto in una prospettiva di concetto, dicitura, fonetica ma, addirittura, il richiamo improprio della regione geografica cui è legata la denominazione geografica è oggi idonea a costituire una pratica lesiva nei confronti della denominazione protetta.

Infine, in merito all’ultima questione riguardante la determinazione delle caratteristiche del consumatore, è interessante osservare come la Corte si avvalga per analogia di una disposizione prevista dal Reg. CE 110/2008, emanato a protezione delle indicazioni geografiche delle bevande spiritose (bevande alcoliche), che sono dotate di una disciplina particolare, seppure molto simile a quella prevista per gli alimenti. La novità nella concezione di consumatore risiede nel fatto che il giudice nazionale nel valutare l’”evocatività” degli elementi controversi, dovrà utilizzare come parametro le conoscenze del consumatore medio europeo, inteso quale cittadino di un qualsiasi stato membro e non le normali conoscenze del cittadino dello stato membro in cui ha sede la denominazione d’origine. Così facendo, la Corte di Giustizia ha provveduto a tutelare in modo più pregnante l’affidamento dei consumatori nei confronti delle informazioni che gli vengono fornite.

In conclusione, questa recente pronuncia apre nuove prospettive in tema di evocazione che dovranno essere tenute in considerazione in primis dalle imprese operanti nel settore. Ad esempio, nel lanciare sul mercato un nuovo prodotto sarà necessario verificare non solo il nome e/o i segni grafici in etichetta tali che non richiamino prodotti protetti da denominazioni d’origine, ma anche immagini o loghi che non richiamino una regione associata ad una denominazione d’origine, ancorché il produttore operi in tale specifica zona ma non rispetti il disciplinare della denominazione d’origine. Pertanto, le scelte di marketing aziendali sul tema dovranno essere preliminarmente vagliate anche a livello giuridico onde verificarne l’ammissibilità e la legittimità.

Lo studio legale A & R Avvocati Rechtsanwälte rimane a Vostra disposizione per la consulenza giuridica circa tutti gli aspetti della tutela dei Vostri prodotti e relativi marchi e/o denominazioni corrette per fornirvi un’assistenza all around nel settore.

Avv. Diana Tommasin

Convegno sul Progetto di riforma del codice civile italiano

L’Avv. Rosa Maria Mare-Ehlers ha partecipato nella giornata di ieri all’interessante Convegno sul Progetto di riforma del codice civile italiano tenutosi presso l’Università di Innsbruck (Austria) organizzato dai Professori ed Avvocati Francesco A. Schurr, della Facoltà di diritto privato comparato dell’Università di Innsbruck e Marcello Maggiolo, Ordinario dell’Università di Padova e Professore onorario dell’Università di Innsbruck.

Sono stati discussi gli ambiti, le prospettive e le ambizioni di revisione del codice civile alla luce degli esiti dei lavori dei gruppi di studio  deputati alla stesura del Disegno di legge presentato al Senato in data 19.03.2019 (DDL S 1151) e delle diverse esperienze degli addetti ai lavori nei settori interessati alla revisione. Sono intervenuti in tal senso Il Prof. Avv. Guido Alpa per enucleare le linee guida e i perimetri della riforma, il Prof. Notaio Andrea Fusaro nell’ambito delle tematiche relative alle associazioni, fondazioni, enti del terzo settore e trusts, nonchè il Prof. Avv. Giovanni De Cristoforo sulle disposizioni concernenti la parte generale del contratto e il Prof. Avv. Pietro Sirena in merito alle novità sulle garanzie del credito.

La tavola di discussione ha annoverato voci di tutti i settori interessati,  dal giudiziario nella persona del Presidente del Tribunale di Bolzano Dr. Elsa Vesco, all’Avvocatura, con il Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Bolzano Avv. RA Franco Biasi, al Notariato con il Presidente del Consiglio Notarile di Bolzano Notaio Walter Crepaz, al mondo universitario con i Professori Matilde Girolami, dell’Università di Padova  e Gregor Christandl, dell’Università di Innsbruck, il tutto sotto la sapiente presidenza e moderazione bilingue del Prof. Dr. Bernhard Eccher dell’Università di Innsbruck.

La disciplina patriarcale del cognome in Italia

Forse non tutti sanno che di recente si è registrata in Italia un’apertura nei confronti della possibilità di attribuire ad un figlio alla nascita anche il cognome materno. La regola del patronimico imposto per legge, cioè del cognome paterno da attribuire al figlio alla nascita era invero una norma “radicata nel costume sociale” e considerata così ovvia e scontata da non essere prevista come tale nel codice civile italiano. In tale codice esistono sì norme di riferimento per l’acquisizione del cognome paterno per i figli naturali e per quelli adottivi ma non per i legittimi, essendo questo considerato così collegato “all’unità della famiglia” da non essere necessario prevederlo espressamente nel codice. Ora tale automatismo sicuramente contrasta con i principi costituzionali di eguaglianza fra i coniugi, ma si giustificava con l’altrettanto principio rilevante della tutela dei segni distintivi ed identificativi di una persona.

In assenza di una legge di riforma della disciplina del cognome nonostante diverse iniziative legislative, è stata la Corte Costituzionale a spingere nel senso del rinnovamento. Di recente, infatti, la Corte Costituzionale italiana (con sentenza num. 286 del 2016) si è pronunciata sull’automatica attribuzione del cognome paterno aprendo una breccia in questo caposaldo sociale e ritenendo illegittima la norma “ nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita anche il cognome materno”. L’aspetto rilevante è qui dato, da un lato dal “comune accordo dei genitori” e dall’altro “dall’aggiunta del cognome materno a quello paterno”. Infatti qualora entrambi i genitori vogliano affiancare al patronimico anche il cognome materno, tale richiesta non può essere respinta perché rispetta sia “il principio di uguaglianza morale e giuridica dei coniugi” sia “il diritto all’identità personale del figlio ad essere identificato sin dalla nascita attraverso l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori”. In tal modo la Corte si è allineata con quello che di fatto già avveniva da tempo nella prassi amministrativa sulle richieste di modifica del cognome. Diverse circolari del Ministero dell’interno avevano infatti, già da una precedente sentenza della Corte costituzionale del 2006, cominciato a guardare con favore  – nel senso del loro accoglimento – alle richieste di affiancamento del cognome materno a quello paterno per i figli. Tali richieste, infatti, risultavano meno problematiche delle altre, volte all’attribuzione del solo cognome materno al posto di quello paterno. La ratio sta nel fatto che mentre nelle prime richieste di aggiunta del cognome materno a quello paterno si introduca “un ulteriore elemento identificativo”, nelle altre – volte alla sostituzione del cognome paterno con quello materno – “si giunge all’eliminazione di un segno distintivo” per cui in tal caso occorre maggiore cautela. Tuttavia a favore anche di queste ultime richieste si annoverano le osservazioni del Consiglio di Stato (Parere 17.03.2004 num. 515) che guarda positivamente ad un accoglimento anche di queste ultime, qualora ci sia la volontà concorde di entrambi i coniugi, sulla base della considerazione che “la pubblica amministrazione non può sostituirsi alla concorde volontà dei genitori”. In sintesi la nuova sentenza della Corte costituzionale ha scalfito la regola dell’automatismo del cognome paterno da attribuirsi ai figli, come retaggio di una concezione patriarcale della famiglia e contraria ai principi di eguaglianza sanciti in Costituzione, ma ciò solo a fronte di una diversa volontà di entrambi i genitori – concordi tra loro – nella scelta del doppio cognome (quello materno in aggiunta a quello paterno). La Corte però non ha mancato di precisare che, in realtà di più non può fare considerando che l’unico reale potere è nelle mani del legislativo che è il solo legittimato ad adottare le possibili scelte alternative al patronimico. Nelle more di un intervento legislativo, quindi, il cognome del padre risulta ancora la regola applicabile laddove manchi una concorde volontà derogatoria dei genitori a favore di un doppio cognome.

Mediazione obbligatoria: il consumatore non deve essere obbligatoriamente assistito da un avvocato e deve essere libero di ritirarsi dalla procedura senza alcun vincolo

Con la sentenza del 14 giugno 2017 (Causa 75-16) la Corte di Giustizia UE si pronuncia nel senso che la nostra normativa nazionale non possa imporre al consumatore, parte di una procedura risoluzione alternativa delle controversie (ADR), di essere assistito obbligatoriamente da un avvocato.

Il Tribunale di Verona rivolgeva alla Corte una domanda di pronuncia pregiudiziale sull’interpretazione della direttiva 2013/11/UE sulla risoluzione alternativa delle controversie dei consumatori e della direttiva 2008/52/CE relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale. In particolare il giudice del rinvio poneva all’attenzione della Corte i seguenti quesiti ovvero

  1. la legittimità del ricorso obbligatorio a una procedura di mediazione, nelle controversie indicate all’articolo 2, paragrafo 1 della Direttiva 2013/11, come condizione di procedibilità della domanda giudiziale relativa a queste medesime controversie;
  2. l’assistenza obbligatoria dei consumatori nell’ambito di un tale procedimento di mediazione da parte di un avvocato;
  3. la legittimità della presenza di un giustificato motivo per i consumatori al fine di sottrarsi a un previo ricorso alla mediazione;

Il Tribunale di Verona richiedeva l’analisi di tali quesiti al fine della valutazione da parte della Corte della eventuale violazione della normativa nazionale ai dettami della direttiva 2013/11.

Tale questione è stata proposta nell’ambito di una controversia che contrapponeva due privati ad un Istituto di credito nella controversia avente ad oggetto il regolamento del saldo debitore di un conto corrente di cui i privati erano titolari. La Corte osserva in base alla direttiva 2008/52 che “La mediazione di cui alla presente direttiva dovrebbe essere un procedimento di volontaria giurisdizione nel senso che le parti gestiscono esse stesse il procedimento e possono organizzarlo come desiderano e porvi fine in qualsiasi momento” e che “l’articolo 3, lettera a), della medesima direttiva definisce la nozione di «mediazione» come un procedimento strutturato,  […] dove due o più parti di una controversia tentano esse stesse, su base volontaria, di raggiungere un accordo sulla risoluzione della medesima con l’assistenza di un mediatore. Tale procedimento può essere avviato dalle parti, suggerito od ordinato da un organo giurisdizionale o prescritto dal diritto di uno Stato membro”.

La Corte prendendo in esame la Direttiva 2013/11, osserva che al considerando 16 prevede nel suo ambito di applicazione i reclami presentati dai consumatori nei confronti dei professionisti e che tale direttiva dispone ai sensi dell’art. 6 che le parti siano informate del fatto che non sono obbligate a ricorrere a un avvocato o consulente legale e del diritto di potersi ritirare dalla procedura in qualsiasi momento se non sono soddisfatte delle prestazioni o del funzionamento della procedura.

A seguito di un esame della normativa nazionale italiana in materia di mediazione, la Corte si pronuncia nel senso che:

  • la direttiva 2013/11 dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che prevede il ricorso a una procedura di mediazione, nelle controversie indicate all’articolo 2, paragrafo 1, di tale direttiva, come condizione di procedibilità della domanda giudiziale relativa a queste medesime controversie, purché un requisito siffatto non impedisca alle parti di esercitare il loro diritto di accesso al sistema giudiziario;
  • la medesima direttiva dev’essere invece interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, la quale prevede che, nell’ambito di una mediazione siffatta, i consumatori debbano essere assistiti da un avvocato e possano ritirarsi da una procedura di mediazione solo se dimostrano l’esistenza di un giustificato motivo a sostegno di tale decisione.

 

Furto al Ristorante

Lo Studio legale A&R Avvocati Rechtsanwälte è stato invitato a curare per il giornale “Buongiorno Italia” una rubrica di suggerimenti giuridici pratici per i ristoratori italiani in Germania. Nell´articolo che segue viene presentato un caso concreto di furto in un ristorante, dal quale si prende spunto per illustrare brevemente le prescrizioni in materia, le eventuali responsabilità del ristoratore, soluzioni e tutele in merito.

Lo Studio cerca di fornire agli operatori del settore dei primi strumenti di facile comprensione per affrontare nel modo migliore problematiche ricorrenti. Vi auguriamo buona lettura.

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