Il controllo giurisdizionale della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato.

Corte di Giustizia Europea, Grande Sezione, Sentenza 21 dicembre 2021.

Le annose questioni relative all’intersecarsi tra la giurisdizione amministrativa e quella ordinaria hanno trovato un’ulteriore declinazione nella vicenda qui in commento, ove ci si è spinti sino ad interrogarsi circa la possibilità di riconoscere competente l’organo giurisdizionale supremo nazionale  ad esercitare un controllo di tutela giurisdizionale sulle sentenze pronunciate dal supremo organo della giustizia amministrativa nazionale, per garantire la tutela giurisdizionale effettiva richiesta dal diritto dell’Unione europea.

La vicenda in esame trae origine da una procedura di gara per un appalto pubblico da aggiudicare in base al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, con previsione di una soglia di sbarramento per le offerte tecniche, in cui una delle partecipanti veniva esclusa, senza neppure essere ammessa alla fase successiva antecedente l’aggiudicazione finale, poiché la sua offerta aveva ottenuto un punteggio inferiore a quello corrispondente alla predetta soglia di sbarramento.

La partecipante esclusa ricorreva dapprima al Tribunale amministrativo regionale competente, contestando, da un lato, la propria esclusione e dall’altro, la regolarità della procedura. Il TAR adito, ritenuto che la ricorrente avesse legittimamente partecipato alla gara e ne fosse stata esclusa a causa della valutazione negativa dell’offerta, pronunciandosi dunque per l’ammissibilità del ricorso, valutava nel merito i motivi addotti, respingendoli integralmente.

In seguito, la partecipante esclusa proponeva appello innanzi al Consiglio di Stato, che, sempre muovendo dall’avvenuta esclusione, non solo respingeva nel merito l’appello proposto, ma addirittura riformava la pronuncia del TAR ritenendo l’appellante neppure legittimata a contestare nel merito gli esiti della gara. Più precisamente, l’appellante, poiché esclusa per non aver ottenuto il punteggio minimo richiesto dalla soglia di sbarramento e, non essendo stata in grado di dimostrare l’illegittimità della gara quanto all’attribuzione del predetto punteggio, di per sé era portatrice di un mero interesse di fatto, analogo a quello di qualunque altro operatore economico del settore non partecipante alla gara.

Avverso tale ultima pronuncia, la partecipante esclusa proponeva ricorso innanzi alla Corte suprema di Cassazione, lamentando la violazione del diritto ad un ricorso effettivo, di cui all’art. 1 della direttiva 89/665 e sostenendo che tale circostanza costituisse uno dei motivi inerenti alla giurisdizione ex art. 111 comma 8 Cost., per i quali è previsto il ricorso in Cassazione contro le decisioni del Consiglio di Stato.

Innanzi a tale eccezione, veniva adita la Corte di Giustizia Europea ed il giudice del rinvio interrogava l’organismo europeo proprio sulla questione relativa alla possibilità di ricorrere alla Suprema Corte nazionale per tutelare il diritto ad un ricorso effettivo, nonostante la giurisprudenza della Corte Costituzionale italiana, sent. n. 6/2018, abbia stabilito che, allo stato, non sia ammissibile equiparare un motivo vertente su una violazione del diritto dell’Unione a un motivo inerente alla giurisdizione, ai sensi dell’art. 111 comma 8 Cost.

Al fine di risolvere la questione prospettatale, la Corte di Giustizia Europea, muove innanzitutto dall’individuazione precisa della normativa europea di interesse, estrapolandone i principi rilevanti e analizzando dettagliatamente la riconducibilità del sistema di tutela giurisdizionale offerto dallo Stato membro al diritto sovranazionale, così come interpretato dalla Corte.

Per quanto concerne la normativa applicabile al caso di specie, la Corte richiama l’art. 4, paragrafo 3 3 l’art. 19, paragrafo 1 TUE, nonché l’art. 1, paragrafi 1 e 3, della direttiva 89/665, letto alla luce dell’art. 47 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea.

In merito all’art. 19 paragrafo 1 TUE, questo obbliga tutti gli Stati membri a stabilire rimedi giurisdizionali necessari per assicurare ai singoli, nei settori disciplinati dall’Unione Europea, il rispetto del loro diritto a una tutela giurisdizionale effettiva. Ciò detto, il legislatore europeo lascia ampia discrezionalità agli Stati membri circa l’individuazione dei rimedi processuali e giurisdizionali attraverso i quali attuare tale principio, salvo sempre il possibile vaglio da parte della Corte di Giustizia.

Una volta accertata, dunque, la possibilità in linea di massima degli Stati membri di poter organizzare la tutela giurisdizionale in maniera discrezionale, ivi inclusa dunque anche la previsione di un sistema di preclusioni per l’impugnazione delle decisioni del supremo organo della giustizia amministrativa da parte del supremo organo della giustizia ordinaria, la Corte analizza l’idoneità del sistema italiano a garantire la tutela del diritto ad un ricorso effettivo di matrice unionale, attraverso il vaglio della conformità ai principi di equivalenza ed effettività.

Per quanto riguarda il principio di equivalenza, la Corte rileva che l’art. 111 comma 8 Cost. limita, con le stesse modalità, la possibilità di ricorrere in Cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato, indipendentemente dal fatto che tali ricorsi siano basati sulla violazione della normativa nazionale o del diritto dell’Unione.

Con riferimento al principio di effettività, la Corte evidenzia che il diritto dell’Unione europea non obbliga gli Stati membri a istituire mezzi di ricorso ulteriori a quelli già esistenti, salvo che il sistema renda impossibile o estremamente difficile l’effettiva tutela dei diritti accordati a livello sovranazionale. Nel sistema italiano, però, la tutela giuridica dei diritti garantiti dall’Unione Europea viene comunque consentita, essendovi un giudice precostituito per legge, nonché la previsione dettagliata dei rimedi giurisdizionali esperibili.

Inoltre, un obbligo nel senso di istituire nuovi rimedi giurisdizionali non può neppure essere ravvisato nell’art. 4, paragrafo 3 TUE, ove si prescrive agli Stati membri di adottare ogni misura di carattere generale e particolare volta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle Istituzioni dell’Unione, dovendo ritenersi soddisfatto tale requisito ove i rimedi già esistenti appaiano idonei al raggiungimento di tale scopo.

Con riferimento alla norma di cui all’art. 1, paragrafo 1 della direttiva 89/665, letta alla luce dell’art. 47 della Carta, anche tale requisito pare essere del tutto soddisfatto, attesa la sussistenza di un giudice precostituito per legge al quale i singoli possono facilmente rivolgersi, non potendosi rinvenire, come già riferito, un divieto per lo Stato di prevedere limitazioni in ordine a ulteriori valutazioni sulle decisioni del supremo organo della giustizia amministrativa.

Alla luce delle motivazioni sopra esposte, dunque, la Corte di Giustizia Europea concludeva dunque per la legittimità del sistema di preclusione individuato ai sensi dell’art. 111 comma 8 Cost., così come interpretato dalla giurisprudenza nazionale, non ravvisando nessuna lesione del diritto ad un’effettiva tutela, ove impedita la possibilità di ricorrere al supremo organo della giurisdizione amministrativa avverso ad una decisione del Consiglio di Stato.

Ciò detto, la Corte opera però una valida censura alle decisioni adottate sia dal TAR che dal Consiglio di Stato, cogliendo nuovamente l’occasione per ribadire la portata del concetto di “partecipante escluso”. Ed infatti, l’esclusione ad una gara per un appalto pubblico ai sensi del diritto europeo, non può e non deve essere determinata dal semplice mancato raggiungimento di eventuali criteri richiesti, bensì  l’esclusione di un offerente è definitiva, sino a quel momento ancora sussistendo dunque un vero e proprio interesse legittimo, se l’esclusione stessa è stata comunicata ed è stata ritenuta legittima da un organo di ricorso indipendente o se non può più essere oggetto di una procedura di ricorso.

Avv. Valentina Preta

Giurisdizione e connessione di causa

Nelle controversie transfrontaliere, in cui sono coinvolte società con sedi in diversi paesi, le questioni di giurisdizione svolgono sempre un ruolo determinante, non solo in seno al giudizio bensì anche in una fase stragiudiziale prodromica allo stesso e nel momento della scelta del foro da adire. In altri termini l’arte del forum shopping, se ben conosciuta, agevola la soluzione delle cause.

Segnaliamo un’interessante attualissima sentenza della Corte di cassazione italiana – sezioni unite civili – num. 4294/2022. Una società di modellistica di diritto italiano incardinava un giudizio di accertamento negativo della contraffazione di diritti di privativa industriale contro due società: la Ferrari spa – di diritto italiano, con sede in Italia e la Ferrari Idea s.a., di diritto svizzero con sede a Lugano. Entrambe queste società avevano diffidato la società italiana di modellistica ad interrompere l’utilizzo del marchio “Ferrari”, inviando medesime diffide anche al rivenditore e al distributore inglese (luogo di distribuzione dei prodotti). Costellazione internazionale della vicenda che veniva sottoposta dall’attrice all’attenzione dei giudici italiani. L’eccezione di giurisdizione sollevata dalle società Ferrari veniva in I e II grado rigettata dai giudici emiliani, pertanto si arrivava in Cassazione. Anche in tale fase si confermava la giurisdizione italiana, quale correttamente adita e ciò sulla base di ragioni di connessione e di esigenze prioritarie di coerenza di giudicati. Gli ermellini hanno fondato la giurisdizione italiana sulla base dell’Art. 6 della Convezione di Lugano del 16.09.1988, che concerne proprio la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e le esecuzioni delle decisioni in materia civile e commerciale in relazione agli stati coinvolti (Italia e Svizzera), convenzione parallela alla Convenzione di Bruxelles del 27.09.1968 (sebbene entrambe superate da strumenti più aggiornati, nel caso di specie applicabili per ragioni temporali). Ai sensi di detto articolo un soggetto convenuto potrà essere citato (anche) – in caso di pluralità di convenuti – davanti al giudice nella cui circoscrizione è situato il domicilio di uno di essi. Pertanto, avendo la Ferrari spa sede legale in Italia ed essendo essa una delle due società coinvolte (invero le diffide stragiudiziali venivano inoltrate da entrambe le società Ferrari) ciò rendeva possibile l’incardinazione del giudizio in Italia, per ragioni di connessione soggettiva e oggettiva. La Cassazione si indirizzava in tal senso proprio applicando la propria giurisprudenza precedente sulla parallela Convenzione di Bruxelles, chiarendo quindi che presupposti per poter chiamare in giudizio in Italia un soggetto non residente per ragioni di connessione sono: la presenza del vincolo di connessione delle domande sin dal momento del loro esperimento e l’esistenza di un interesse ad una istruttoria ed una pronuncia giudiziale unica, che argini il rischio di decisioni incompatibili. Mentre non sarebbe necessario effettuare ulteriori verifiche sul forum shopping e cioè se le domande siano state presentate “esclusivamente allo scopo di sottrarre uno dei convenuti ai giudici dello Stato membro in cui egli ha il suo domicilio”. Prevalente pertanto è la ratio della opportunità di trattare e decidere congiuntamente cause legate da vincoli di connessione soggettiva e/o oggettiva per evitare situazioni incompatibili, qualora le cause fossero trattate separatamente. Interessante in ultimo anche l’argomentazione che ha portato ad escludere la possibilità di fondare la giurisdizione adita sulla base dell’art. 5 della citata Convenzione di Lugano, in base al luogo in cui è avvenuto l’evento dannoso. Nei motivi del ricorso per cassazione infatti, si indicava solo l’erronea applicazione dell’art. 6 della Convenzione di Lugano e non si riprendevano più le censure sotto l’altro profilo dell’Art. 5, pertanto la Cassazione ,“in presenza di una duplice ratio, di cui anche una sola inadeguatamente attaccata (Art. 6)”, atteso che questa risultasse idonea da sola a sorreggere la decisione e che l’omessa impugnazione dell’altra (Art. 5) fosse da valutare quale difetto di interesse, ha tralasciato la trattazione della censura non ripresa nel ricorso in cassazione.

Si osserva quindi ancora una volta quanto sia importante avere dimestichezza con le questioni di giurisdizione: lo studio A&R Avvocati Rechtsanwälte, con la propria esperienza pluriennale, volentieri si rende disponibile ad assisterVi in simili questioni transfrontalieri di notevole delicatezza.

L’entrata in vigore del D.L.vo n. 198/2021 in materia di pratiche commerciali sleali nella filiera agricola e alimentare

Il 15 dicembre 2021 sono entrate in vigore le nuove disposizioni afferenti alle pratiche commerciali sleali in attuazione della Direttiva UE 2019/633 del Parlamento europeo e del Consiglio nonché attuativo dell’art. 7 della L. n. 53/2001 in materia di commercializzazione dei prodotti agricoli e alimentari.

Le nuove disposizioni si applicano ai contratti di cessione “business to business” dei prodotti agricoli e alimentari a decorrere da tale data. Invece, per quanto riguarda i contratti già in essere viene concesso un termine di sei mesi per permettere di renderli conformi alle disposizioni del decreto.

In primo luogo, il D. L.vo 198/2021 definisce il concetto di “prodotti agricoli e alimentari deperibili”. Invero, in precedenza essi venivano definiti dall’art. 62 del D.L. n. 1/2012. Tuttavia, il presente decreto va ad abrogare la precedente definizione adottando quella riportata dalla Direttiva UE 2019/633 secondo cui: “’prodotti agricoli e alimentari deperibili’: (sono) i prodotti agricoli e alimentari che per loro natura o nella fase della loro trasformazione potrebbero diventare inadatti alla vendita entro 30 giorni dalla raccolta, produzione o trasformazione”. Sotto il profilo delle disposizioni contrattuali è necessario rispettare i principi di trasparenza, correttezza, proporzionalità e reciproca corrispettività delle prestazioni in tutte le fasi contrattuali. A tal fine, il decreto impone di formulare obbligatoriamente i contratti di cessione per iscritto. In particolare, si evidenzia l’aspetto afferente alla statuizione del prezzo dei prodotti agricoli e alimentari. esso deve essere stabilito per iscritto a maggior tutela del piccolo produttore. A tal scopo, forme considerate idonee a contenere detto tipo di pattuizione sono anche i documenti di trasporto, di consegna, fatture e ordini di acquisto. Invece, con riferimento alla durata dell’accordo, essa non può essere inferiore ai dodici mesi.

Poi, all’art. 4 e 5 il decreto riporta un elenco di pratiche sleali. Le pratiche elencate all’art. 4 si possono suddividere in due tipi: le pratiche sleali vietate ergo tassativamente considerate sleali (ad es. il versamento del prezzo dopo trenta giorni dalla consegna per i beni deperibili ovvero dopo sessanta giorni per quelli non deperibili) e in quelle considerate sleali se non espressamente pattuite in precedenza, per iscritto, nel contratto di cessione (ad es. la restituzione dei prodotti agricoli rimasti invenduti senza corresponsione del prezzo per tali prodotti o il loro smaltimento). All’art. 5 sono invece riportate ulteriori condotte scorrette di cui alcune coincidono con quanto già disciplinato dall’oggi abrogato art. 62 del D.L. n. 1/2012.

Il decreto in esame pone infine una norma imperativa a disciplina delle vendite sottocosto dei prodotti agricoli ed alimentari freschi e deperibili. Esse sono consentite solamente nel caso in cui il prodotto invenduto si trovi a rischio di deperibilità ovvero in caso di operazioni commerciali già programmate in forma scritta tra le parti. Vige altresì il divieto di far ricadere sullo stesso fornitore le conseguenze economiche che discendessero da un eventuale deperimento o perdita dei prodotti agricoli e alimentari. In caso di violazione di questa norma, si avrà dunque una sostituzione di diritto ai sensi dell’art. 1339 c.c. con il prezzo risultante dalle fatture d’acquisto o quello calcolato sui costi medi di produzione. L’autorità di contrasto deputata al controllo e all’irrogazione di sanzioni in caso di rilevazione di violazioni del decreto in esame è l’ICQRF che può avvalersi dell’Arma dei Carabinieri oltre che della Guardia di Finanza. Permangono comunque le funzioni e le competenze dell’AGCM già previste dalla legge vigente (cfr. art. 18 D. L.vo n. 206/2005).

L’introduzione nel nostro ordinamento della normativa in esame, sebbene diretta ad una maggior tutela del contraente debole (il piccolo fornitore) e ad un principio di certezza dei rapporti giuridici, si può ritenere presenti anche alcuni aspetti di criticità, che verranno con buona probabilità disvelati in sede di controllo e successiva irrogazione delle relative sanzioni. Tra questi, è possibile supporre che le aziende acquirenti medio grandi dovranno affrontare una pressoché totale riorganizzazione dei propri contratti e processi interni di gestione degli stessi nonché dei pagamenti che dovranno obbligatoriamente intervenire entro trenta ovvero sessanta giorni dalla consegna, a seconda del tipo di prodotto oggetto di cessione.

A tal proposito, in totale assenza di giurisprudenza nonché di circolari esplicative o linee guida, è consigliabile adattare i propri processi interni nonché gli stipulandi contratti con i fornitori alla nuova normativa.

Detto ciò, suggeriamo di ricorrere all’ausilio di esperti del settore, come i professionisti dello studio A&R Avvocati Avvocati Rechtsanwälte, i quali grazie ad una pluriennale esperienza nell’ambito agroalimentare, Vi potranno fornire soluzioni su misura, al fine di adattare al meglio le nuove disposizioni alle Vostre esigenze aziendali.

Avv. Diana Tommasin

Possibilità di risarcimento danni conseguenziali ad intese anticoncorrenziali anche per soggetti non fornitori o acquirenti

Segnaliamo una recente sentenza della Corte di Giustizia europea (12.12.2019, causa C-435/2018) che ha chiarito l’an ed il modus di applicazione del diritto dell’Unione europea (nello specifico l’art. 101 del Trattato TFUE) in caso di intese anticoncorrenziali, nei confronti dei singoli diritti nazionali (nel caso di specie diritto austriaco), aprendo nuove possiblità di richieste di risarcimento dei danni anche per soggetti non direttamente coinvolti dalla norma anticoncorrenziale.

La causa a monte intercorreva tra alcune società del gruppo Schindler e altre del gruppo ThyssenKrupp e dall’altra parte un ente di diritto pubblico, il Land Oberösterreich oltre ad ulteriori altri enti, a seguito di comportamenti anticoncorrenziali delle società dedite all’installazione e manutenzione di ascensori e scale mobili nei mercati del Belgio, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi. Detti comportamenti anticoncorrenziali erano stati previamente valutati dalla Commissione europea e sanzionati con una corrispondente ammenda, pertanto il comportamento illecito a monte, volto a violare il gioco della concorrenza, era stato già accertato. Nella causa in discussione si verteva quindi essenzialmente sulla possibilità per un soggetto quale il Land Oberösterreich – pur non soggetto attivo (nè acquirente nè fornitore) del settore di mercato interessato, non acquistando o vendendo i prodotti interessati dalla violazione, ma solo in qualità di organismo che concedeva sovvenzioni – di ottenere un risarcimento danni riconducibile a detti comportamenti anticoncorrenziali. Il tutto alla luce di disposizioni confliggenti tra le norme nazionali del diritto austriaco e le norme sovranazionali e la giurisprudenza del diritto europeo. Il diritto austriaco infatti poneva un limite a tale possibilità di risarcimento danni patrimoniali per l’ente pubblico in quanto soggetto terzo estraneo alla sfera di interessi che la norma anticoncorrenziale intenderebbe proteggere, cioè quella degli operatori diretti del mercato violato, proteggendo l’interesse a mantenere la concorrenza sul mercato interessato dall’intesa anticoncorrenziale. Tuttavia il giudice austriaco riconosceva sia da un lato il ruolo determinante dei soggetti concedenti sovvenzioni alla costruzione di immobili sia l’ampiezza della giurisprudenza della CGUE che ammetteva al risarcimeto danni chiunque avesse subito un danno causato da un contratto o da un’intesa volta ad alterare il gioco della concorrenza, pertanto il giudice austriaco si decideva a proporre un rinvio pregiudiziale alla Corte europea. Il rinvio pregiudiziale è un rimedio che consente proprio ai singoli giudici degli stati membri di interpellare la Corte europea sulla corretta interpretazione ed applicazione del diritto dell’Unione. La Corte a sua volta, una volta interpellata, non risolve la causa nazionale, ma detta solo principi di interpretazione che vincolano poi i giudici nazionali, i quali nel risolvere la controversia nazionale devono attenersi ai principi dettati e di più, una siffatta decisione della CGUE in merito, vale come precedente anche per gli altri giudici nazionali cui vengano sottoposte controversie simili. Da qui il forte interesse a tali pronunce. Nel caso di specie la Corte Europea adita ha dichiarato che „l’Art. 101 TFUE deve essere interpretato nel senso che le persone che non operano come fornitori o come acquirenti sul mercato interessato da un’intesa, ma che hanno concesso sovvenzioni, nella forma di prestiti agevolati, ad acquirenti di prodotti offerti su tale mercato, possono richiedere la condanna delle imprese che hanno partecipto a tale intesa al risarcimento del danno subìto in ragione del fatto che, essendo stato l’importo di tali sovvenzioni più elevato di quanto non sarebbe stato in assenza di detta intesa, queste persone non hanno potuto utilizzare la differenza ad altri fini più lucrativi“. Pertanto la Corte ha chiarito che il diritto europeo (Art. 101 TFUE) si applica direttamente producendo i suoi effetti sui singoli e i diritti nazionali non devono pregiudicare l’applicazione effettiva del diritto europeo, da qui l’allargamento del bacino dei soggetti che possono richiedere il risarcimento del danno rispetto a quello del diritto austriaco. Tuttavia il nesso di causalità tra il danno subito ed il comportamento anticoncorrenziale spetta nella sua valutazione ai giudici nazionali, i quali nel caso concreto dovranno valutare se detto nesso di causalità era stato sufficientemene provato e se l’ente pubblico aveva o meno la possibilità di effettuare degli investimenti più lucrativi che determinassero e giustificassero l’ammontare del danno.

La procura alle liti rilasciata all’estero ma utilizzata in un giudizio che si svolge in Italia necessita di particolare attenzione.

Un grave errore che purtroppo di frequente si verifica nel rilasciare una procura alle liti per un processo incardinato in uno stato straniero è quello di ragionare unicamente secondo la mentalità giuridica del paese di rilascio della procura e non anche sulla base della legge dello stato in cui si svolge il processo. Ciò determina spesso errori che incidono sulla validità stessa della procura e che inevitabilmente si riflettono sul giudizio in corso comportandone un allungamento nei tempi e anche un aggravio dei costi nei casi in cui la procura debba essere nuovamente rilasciata e tutto reiniziato ex novo.

Occasione per detta riflessione è una recente sentenza della Corte di Cassazione italiana, I sez. Civile, num. 12811/2016 che vedeva coinvolte due parti: una banca italiana da un lato (società ricorrente in Cassazione) e un ente economico tedesco del Land Hessen dall‘altro. Processo originario intercorso tra dette parti era l’opposizione ad un decreto ingiuntivo instaurato presso il Tribunale di Padova dalla banca italiana contro l’ente tedesco. In tale prima fase di giudizio l’ente tedesco si costituiva in giudizio esibendo una procura alle liti rilasciata in Germania dal soggetto legale rappresentante dell’ente, ma autenticata da un Notaio tedesco in modo difforme da quanto richiesto dalla lex fori italiana. Il Notaio tedesco infatti, autenticava detta firma a mezzo di foglio distinto rispetto a quello su cui era redatta la procura alle liti e soprattutto autenticava in una data differente (rectius: successiva) rispetto alla data della sottoscrizione della procura stessa. Dette modalità di rilascio della procura venivano contestate dai legali della banca italiana perchè non conformi ai requisiti indispensabili previsti dall’Art. 2703 cc secondo cui: „L’autenticazione consiste nell’attestazione da parte del pubblico ufficiale che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza. Il pubblico ufficiale deve previamente accertare l’identità della persona che sottoscrive“. Nel caso di specie, infatti, il fatto che la autentica fosse stata effettuata successivamente alla materiale apposizione della firma ne determinava la mancata contestualità. Il Land tedesco d’altra parte si appellava alla legge notarile tedesca che all’Art. 40 prevede che „una firma può essere autenticata solo se apposta o riconosciuta in presenza del Notaio“, ammettendo quindi anche una autentica su riconoscimento della firma. La prima istanza veniva persa dal Land Hessen, il quale procedeva in appello presso la Corte di appello di Venezia, che – proprio relativamente alla procura ad litem – si pronunciava  ritenendola valida in base all’approcio internazionalprivatistico. In altri termini, la legge di diritto internazionale processuale italiana (Art. 60 L.218/95) considera valida una procura quanto alla forma se essa è considerata tale dallo Stato in cui essa viene rilasciata. Pertanto la Corte di Appello, ancorandosi proprio al citato art. 40 della legge notarile tedesca, riteneva la procura rilasciata nelle forme descritte come valida. Contro la sentenza di appello, che si risolveva in modo negativo per la Banca italiana – comunque e per altri motivi – con il rigetto dell’opposizione, la Banca italiana, presentava ricorso in cassazione  ritornando anche nell’ultima istanza di giudizio sul tema della procura alle liti. Gli ermellini quindi, intervenivano  su tale aspetto in chiave chiarificatoria dichiarando – in via preliminare e d’ufficio – nulla per difetto di validità non solo la procura a monte perchè priva dei requisiti di specialità della stessa richiesti precipuamente dal codice di procedura civile (Art. 365 cpc) ma anche la procura alle liti allegata al Controricorso in cassazione (rilasciata dal legale della fase di merito al legale cassazionista). In altri termini un effetto a catena: la prima procura rilasciata in data antecedente alla sua autentica veniva dichiarata invalida perchè non contestuale, mentre la seconda procura veniva invalidata perchè concessa da un procuratore alle liti (il legale della fase di merito) laddove invece l’Art. 365 cpc richiede che per il giudizio di cassazione la procura speciale deve essere rilasciata dalla parte o da chi ha un potere di rappresentanza sostanziale e non processuale, come il procuratore alle liti. Ma particolarmente interessante risulta il chiarimento reso dalla Corte di cassazione sui motivi di invalidità della procura a monte: questa veniva dichiarata invalida proprio per interpretazione della legge tedesca. In altri termini, è vero sì che la legge di diritto processuale internazionale italiana consente l’utilizzazione in un giudizio italiano di una procura rilasciata all‘estero e che la validità della stessa può essere anche definita in ragione della lex loci (quella del luogo di rilascio della procura, nel caso di specie, la Germania), ma semprechè l’atto sia equivalente a quello previsto dalla legge italiana. Trattandosi di una scrittura privata autenticata l’art 2703 cc richiede come necessaria la contestualità  e la resa della sottoscrizione alla presenza del notaio. In base ad una corretta interpretazione dell’Art. 40 della legge notarile tedesca anche in Germania il notaio non è abilitato a riconoscere una firma che non sia stata resa in sua presenza, sebbene in un altro momento. Ora, visto che nella procura utilizzata per quel giudizio non si specificava che la precedente firma era stata resa in presenza del notaio, ciò ne determinava la mancanza di un elemento essenziale per la sua validità per l’ordinamento italiano non sanabile neanche con la semplice dichiarazione che il Notaio conoscesse personalmente il sottoscrittore. Pertanto la Cassazione ha ritenuto il riconoscimento di validità della procura rilasciata all’estero dichiarata dalla Corte di appello come non corretto ritenendo instaurato in modo invalido il processo di primo grado, cassava quindi la sentenza di appello ed accoglieva l’opposizione al decreto ingiuntivo della banca italiana contro il Land tedesco. Un  notevole dispendio di costi e energie per una procura sottovalutata.

Vendita internazionale di merci: attenzione alla corretta formulazione contrattuale.

Molto spesso assistiamo le aziende in diverse problematiche relative alla compravendita di beni mobili a carattere internazionale, vale a dire quelle vendite che intercorrono tra compratore e venditore professionale con sede d‘affari in due diversi paesi. Quasi di regola le aziende operano, anche a livello intenazionale, con il solo meccanismo degli ordini da parte del cliente, della conferma degli ordini e delle consegne senza avere la consapevolezza di stipulare in tal modo dei contratti veri e propri di vendita talvolta non adeguatamente disciplinati. In caso infatti, per esempio, di difetti delle merci consegnate sorgono problemi relativi in particolare alla disciplina giuridica applicabile ai contratti in tal modo conclusi.

Per tali motivi appare etremamente importante che le aziende abbiano consapevolezza della necesstà di regolamentare detti rapporti, tramite accordi quadro, in caso di vendite reiterate nel tempo, tramite condizioni generali di vendita accettate dal proprio partner contrattuale o altro a seconda delle diverse esigenze nelle singole occasioni. Un aspetto particolarmente importante da disciplinare è senza dubbio la legge da applicare al rapporto di vendita, che ben potrà essere selezionata dalle parti in via contrattuale. Tuttavia una corretta formulazione di tali clausole è di particolare importanza. Segnaliamo a tal proposito una curiosa sentenza della Corte di Appello di Monaco di Baviera (OLG München – 7. Zivilsenat – del 02.10.2013 – 7 U 3837/12) che – proprio in un caso di vendita internazionale – ha denegato l’applicazione della disciplina uniforme della Convenzione di Vienna del 1980 sulla compravendita internazionale di beni mobili (CISG) con una motivazione succinta, ma divergente dalla ormai consolidata giurisprudenza internazionale sia di merito che di legittimità sul punto. Le due aziende in lite, appartenevano a due Stati differenti e oggetto della lite era il mancato pagamento di forniture di concentrato di succo di fragole. La parte convenuta (compratrice) intendeva infatti compensare quanto da essa dovuto con le proprie pretese di risarcimento danni in correlazione alla mancata tempestiva fornitura di detto concentrato di succo di fragola, in particolare essa chiedeva di compensare sulle somme dovute la differenza tra il prezzo dovuto contrattualmente ed il prezzo di mercato effettivo al momento e nel luogo della fornitura effettuata successivamente. Le parti avevano pattuito lapidariamente il foro competente in Monaco di Baviera ed il diritto applicabile quello tedesco („Gerichtsstand München. Deutsches Recht“). Nella fase di appello, tra i diversi motivi di impugnazione, occorre qui segnalare che la parte attrice riteneva che nella prima istanza i giudici la avessero – in modo non corretto – condannata ad adempiere alla propria fornitura sulla base dell’applicazione delle sole norme di legge tedesca (BGB-HGB). In realtà, essendo la vendita intercorsa tra due soggetti con sede di affari in stati differenti, ad essa si sarebbe dovuta applicare più correttamente la Convenzione di Vienna del 1980 sulla vendita internazionale di beni mobili, sulla base della quale parte attrice avrebbe ben potuto ai sensi dell’art 64, comma I lett.a) dichiarare risolto il contratto per il ricorrere di un inadempimento essenziale della controparte. I giudici di appello confermavano l’applicazione al caso concreto delle sole norme di legge tedesca (BGB e HGB) ritenendo che le norme di garanzia della CISG ivi non dovessero trovare applicazione perchè „le parti stipulavano in entrambi i contratti in esame, espressamente e in modo inequivoco l‘applicazione del diritto tedesco. Ciò comporterebbe l’esclusione della Convenzione di Vienna del 1980“. Ora tale motivazione desta particolare stupore perchè la giurisprudenza maggioritaria sia tedesca (tra tutte BGH, IHR 2010,216 e BGH, NJW 1997, 3309) che italiana (in particolare Tribunale di Forlì dell’11.12.2008, disponibile in tedesco anche in IHR 2013, 197) che in generale internazionale ritiene un automatismo l’applicazione della CISG laddove le parti abbiano pattuito l’applicazione di un diritto nazionale di uno degli stati aderenti alla Convenzione. Per usare la argomentazione della corte di Forlì detto automatismo trova fondamento nella natura stessa della Convenzione di Vienna, quale convenzione di diritto materiale uniforme con un ambito di applicazione „speciale“ rispetto alla normativa generale nazionale sulla vendita. Detta specialità ne determina la prevalenza sulle altre norme generali disciplinate dal diritto nazionale, comunque individuato come applicabile. In sintesi tutte le volte in cui le parti internazionali prevedono un diritto applicabile nazionale al loro rapporto e tale diritto è quello di uno Stato contraente la Convenzione che la ha recepita come diritto uniforme, quest’ultima è parte di quel diritto nazionale scelto e si applica con carattere di prevalenza sullo stesso in ragione della propria specialità, salvo che le parti facciano uso delle facoltà di esclusione specificamene previste agli artt. 12  e 28 CISG. Da qui l’estrema importanza di una corretta formulazione delle clausole di scelta di legge applicabile, anche alla luce di interpretazioni divergenti quali quelle del OLG München citata.

Il nostro studio offre alle aziende la propria expertise in campo internazionale sia nella corretta redazione delle clausole contrattuali più aderenti alle proprie eigenze sia nella soluzione di problematiche che possano insorgere a seguito della mancata o incorretta formulazione di dette clausole nell’ambito di una vendita internazionale tra Italia e Germania.

Competenza del giudice italiano per illeciti civili

Segnaliamo la sentenza nr. 27164 del 26 ottobre 2018 della Corte di Cassazione a sezioni unite in tema di giurisdizione del giudice italiano nei confronti di soggetti stranieri in materia di illeciti civili.

In particolare la Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sulla giurisdizione del giudice italiano in merito alla domanda risarcitoria avanzata da un’emittente radiofonica italiana nei confronti di una radio slovena operante su una frequenza diversa, a causa delle illecite interferenze, provenienti dall’impianto dell’emittente slovena, con il segnale irradiato dall’impianto dell’attrice in Italia.

Le Sezioni Unite richiamano espressamente la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea – Corte giust. 11 gennaio 1990, causa C-220/88, e Corte giust. 16 luglio 2009, C-189/08 – osservando che, ai sensi dell’art. 5, n. 3, Regolamento CE n. 44del 2001 [ora sostituito dall’art. 7, n. 2, Regolamento UE n. 1215 del 2012], deve aversi riguardo al “luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto”, ovvero il luogo in cui è sorto il danno ed in cui il fatto causale ,generatore della responsabilità da delitto, ha prodotto direttamente i suoi effetti dannosi nei confronti della vittima immediata, dovendosi avere riguardo non solo al “luogo dell’evento generatore del danno”, ma anche al “luogo in cui l’evento di danno è intervenuto” e non rilevando invece il luogo dove si sono verificate o potranno verificarsi le conseguenze future della lesione del diritto della vittima.

Nel caso di specie il luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto non è dunque quello in cui è ubicato l’impianto estero della radio straniera ma, piuttosto, quello in cui sorge il danno, ovvero l’area colpita dall’interferenza individuabile sul territorio italiano.

Vendita internazionale di beni mobili e saggio degli interessi

Quando si stipula un contratto con un partner commerciale che si trova in uno stato diverso dal proprio (come nel caso in cui il venditore ha sede in Italia ed il compratore in Germania) se le parti non hanno scelto in fase di trattative quale sia la legge applicabile al rapporto, troverà applicazione la disciplina della Convenzione di Vienna del 1980, che regola la vendita internazionale B2B di beni mobili.

L’art. 78 della Convenzione di Vienna del 1980 prevede che al creditore del prezzo del bene compravenduto spettino gli interessi. La norma tuttavia non prevede quale sia il saggio di interesse che debba essere applicato al fine del calcolo degli interessi stessi. Per tutto ciò che non è espressamente regolato dalla Convenzione, si dovrà fare riferimento alla legge che si applica al rapporto in base alle regole di diritto internazionale privato. Il regolamento CE 593/2008 (Roma I), stabilisce che, in mancanza di scelta delle parti, il contratto di vendita di beni sia disciplinato dalla legge del paese nel quale il venditore ha la sua residenza abituale. Quindi la misura del saggio di interesse deve essere determinata dal diritto al quale rinviano le norme di diritto internazionale privato e quindi dalla legge del venditore.

Lo Studio A&R Avvocati Rechtsanwälte, con pluriennale esperienza nei rapporti giuridici intracomunitari, Vi assiste in maniera qualificata ed affidabile nella redazione e stipulazione di accordi con i Vostri partner europei offrendoVi una consulenza adeguata su misura dei Vostri progetti commerciali.

La possibilità di iniziare due procedimenti in due diversi Stati dell’Unione europea.

Capita spesso nei casi di situazioni giuridiche che coinvolgono più stati e che pertanto presentano un carattere d’internazionalità sotto diversi profili, di porsi il problema dove iniziare un giudizio per prima o se sia possibile ed in che misura iniziare contemporaneamente due processi in due stati diversi dell’Unione senza ricadere nei blocchi dettati dalle norme processualistiche internazionali. La scelta va rimessa ad un’attenta analisi giuridica preventiva per evitare inutili costi processuali e fatali perdite di tempo.

Di recente la Corte di Cassazione (Ordinanza n. 20841 del 21.08.2018) italiana si è occupata di un caso di litispendenza internazionale tra l’Austria, l’Italia e l’Ungheria pronunciandosi con un’ordinanza che è spunto di importanti riflessioni per evitare lunghi percorsi giudiziari ed evitabili costi. Nel caso concreto si trattava dei congiunti (moglie e figli) di un cittadino italiano deceduto in Austria a seguito di un incidente stradale causato da una cittadina ungherese assicurata in Ungheria, con società mandataria dell’assicurazione in Italia. I congiunti avevano instaurato un giudizio civile e penale in Austria (luogo di verifica del sinistro stradale) nei confronti della cittadina ungherese e della sua assicurazione per l’accertamento e la liquidazione dei danni patrimoniali del sinistro. Durante il corso del processo civile (poco prima della precisazione delle conclusioni) i congiunti decidevano di agire anche in Italia nei confronti della società mandataria dell’assicurazione ungherese e della cittadina ungherese stessa per l’accertamento e la liquidazione dei danni non patrimoniali insorgenti dal sinistro. Il Tribunale di I grado adito accoglieva l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dalle parti ungheresi e chiudeva il processo. Le parti italiane (mentre nel frattempo il processo in Austria si chiudeva definitivamente) ricorrevano in appello in Italia e la Corte competente, nonostante venisse resa edotta della conclusione del giudizio austriaco, nuovamente chiudeva il processo, ritenendo corretta la posizione del I giudice nel senso della carenza di giurisdizione. I congiunti italiani ricorrevano quindi in Cassazione. Gli Ermellini colgono l’occasione per precisare alcuni aspetti importanti e spesso fonte di equivoci anche tra i tecnici del diritto: il Tribunale di I grado ritenne che la causa introdotta davanti a lui fosse sostanzialmente coincidente con quella proposta dinanzi ai giudici austriaci e quindi erroneamente chiuse il processo per difetto di giurisdizione. Indipendentemente dalla valutazione se esistesse o meno coincidenza dei petita, la Cassazione precisa che nel caso in cui due cause vengano promosse presso due giudici diversi dell’Unione, anche in due momenti successivi, si ha un’ipotesi di litispendenza internazionale e non di carenza di giurisdizione, con la conseguenza che (ai sensi dell’Art 27 del Reg. CE 44/2001 ora sostituito dal Reg. UE 1215/2012) il giudice successivamente adito deve sospendere d’ufficio il giudizio fino a che sia stata accertata la competenza del giudice adito in precedenza. Il tribunale di I grado, quindi avrebbe dovuto sospendere il giudizio fino alla pronuncia definitiva del tribunale austriaco e non chiudere il giudizio per carenza di giurisdizione. Ma anche la Corte d’appello successivamente adìta ha erroneamente chiuso il processo infatti in tale fase, il procedimento austriaco era già concluso e quindi veniva meno la causa di sospensione per litispendenza internazionale proprio per venir meno della litispendenza, cioè della pendenza contemporanea e parallela di sue cause presso due giudici dell’Unione. “La Corte d’Appello pertanto non avrebbe dovuto confermare la sentenza di I grado, ma rilevare a) il venir meno della causa di sospensione; e b) accertare se vi fosse o non vi fosse un giudicato internazionale”. In altri termini appresa l’esistenza di un precedente giudicato da parte del giudice austriaco si sarebbe dovuto vagliare i termini dello stesso e l’incidenza sul giudizio italiano. In caso di coincidenza ciò avrebbe portato ad una chiusura del giudizio già deciso (ne bis in idem) e invece in caso di mancata coincidenza della portata del giudizio precedente con quello in corso ad una prosecuzione del giudizio italiano. Nel caso di specie la Cassazione ha rilevato che nessuna coincidenza di giudicati si sarebbe potuta verificare, vertendo essenzialmente il primo processo (in Austria) sull’accertamento dei danni patrimoniali ed il secondo (in Italia) su quelli non patrimoniali. I due procedimenti avevano solo una parte comune: l’accertamento della responsabilità nel sinistro. Su questo aspetto si era già pronunciata la Corte austriaca sia civile che penale pertanto il giudice italiano avrebbe dovuto attenersi senza entrare nel merito alle risultanze di quei giudizi, decidendo invece su altri aspetti, quali l’accertamento della sussistenza del danno non patrimoniale e del quantum dello stesso. La Cassazione pertanto ha accolto il ricorso e ha rinviato il tutto nuovamente in Corte d’appello con chiara indicazione di attenersi alle sentenze straniere evitando conflitti di giudicati endocomunitari. Tutto da rifare quindi per un cavillo procedurale.

Termini per il riesame di un’ingiunzione di pagamento europea (IPE)

Intendiamo segnalare una recente pronuncia della Corte di cassazione italiana (Cass. Civ. Sezioni Unite n. 7075/17) sul procedimento di riesame di una ingiunzione di pagamento europea. Come noto i creditori che intendano recuperare il proprio credito sofferente nei confronti di un partner commerciale straniero, di residenza EU, si possono avvalere – alternativamente e a seconda dei casi – sia degli strumenti nazionali  di recupero del credito (procedimenti monitori nazionali con successivo riconoscimento immediato del titolo) sia degli strumenti comunitari (IPE) ai sensi del Reg. CE n. 1896/2006, con le modifiche di cui al Reg. EU n. 2015/2421 in vigore a partire dal luglio di quest’anno. Quando un debitore riceve un’ingiunzione di pagamento europea ha oltre alla possibilità dell’opposizione ordinaria al provvedimento (Art. 16), anche la possibilità ai sensi dell’Art. 20 del suddetto Regolamento istitutivo di richiederne il riesame in circostanze eccezionali ivi descritte.

Tuttavia, mentre per l’ipotesi dell’opposizione ordinaria il legislatore comunitario ha previsto un termine esplicito di 30gg dal momento in cui l’ingiunzione è stata notificata, per il diverso procedimento di riesame nessun termine specifico viene indicato, ma viene usata unicamente la dizione che il convenuto “agisca tempestivamente”. Ma attenzione l’interpretazione relativa al termine del riesame – osserva correttamente la Corte di Cassazione – deve essere fatta unitariamente e internamente al Regolamento. Per verificare quindi quale termine sia da applicare all’ipotesi del riesame occorre riferirsi in primis all’Art 26 del Regolamento istitutivo che prevede che “tutte le questioni procedurali non trattate specificamente dal presente regolamento sono disciplinate dal diritto nazionale”, vale a dire dalla lex fori in cui il procedimento di riesame viene incardinato. Nell’ipotesi trattata dalla Corte di Cassazione italiana quindi, la legge processuale italiana. Il Regolamento con tale norma ha detto un vero e proprio divieto di far ricorso ad altri ceiteri di interpretazione sistematica, estensiva o analogica. “Il principio che il Regolamento esprime è che in tutte le ipotesi in cui una questione inerente il processo non sia trattata specificamente nel regolamento, cioè espressamente regolata da una norma di esso, la disciplina deve ricercarsi nel diritto nazionale”. A fortiori l’Art. 29 del Regolamento affida agli Stati membri la regolazione del procedimento di riesame, quindi la questione dei termini del riesame, essendo evidentemente questione di rito deve essere risolta applicando la normativa processuale italiana. Lo Stato italiano ha comunicato alla Commissione europea che il giudice italiano competente per le questioni di riesame di un’IPE è lo stesso giudice che ha emesso l’ingiunzione, ai sensi dell’Art. 650 cpc, e che anche il relativo procedimento applicabile al riesame sia quello dell’Art. 650 cpc. Quindi è ai termini previsti da tale articolo che occorre guardare per la proposizione tempestiva di un riesame dell’IPE in Italia, vale a dire ai termini previsti dall’ordinamento italiano per l’opposizione tempestiva al decreto ingiuntivo (richiamo all’Art. 641 cpc) quando non sia iniziata l’esecuzione, ed in quello di cui al terzo comma dell’Art 650 (“fino a 10 gg dal primo atto di esecuzione”) quando l’esecuzione sia già iniziata, qualificandosi tale ultimo termine come il “termine finale” per poter presentare il riesame. Oltre a questo importante chiarimento interpretativo gli Ermellini prendono posizione anche su un’eventuale menomazione del diritto alla difesa per il convenuto in Italia – come paventato dalle tesi difensive della società ricorrente. La Corte, invece, osserva che “l’istituto del riesame è costruito dal legislatore comunitario come un rimedio che ha natura meramente rescindente” e quindi che comporta la nullità dell’IPE “sulla base del solo riconoscimento da parte del giudice dell’esistenza di una situazione che legittimi il riesame”, quindi il contenuto delle difese di chi voglia proporre un riesame è limitato alla sola deduzione della situazione legittimante il riesame ai sensi dell’Art. 20 del Regolamento a differenza invece delle ben più ampie deduzioni difensive cui è tenuto un’opponente ad un decreto ingiuntivo nazionale. A detta della Corte pertanto “Il diritto di difesa non subisce la benchè minima menomazione”.