La disciplina patriarcale del cognome in Italia

Forse non tutti sanno che di recente si è registrata in Italia un’apertura nei confronti della possibilità di attribuire ad un figlio alla nascita anche il cognome materno. La regola del patronimico imposto per legge, cioè del cognome paterno da attribuire al figlio alla nascita era invero una norma “radicata nel costume sociale” e considerata così ovvia e scontata da non essere prevista come tale nel codice civile italiano. In tale codice esistono sì norme di riferimento per l’acquisizione del cognome paterno per i figli naturali e per quelli adottivi ma non per i legittimi, essendo questo considerato così collegato “all’unità della famiglia” da non essere necessario prevederlo espressamente nel codice. Ora tale automatismo sicuramente contrasta con i principi costituzionali di eguaglianza fra i coniugi, ma si giustificava con l’altrettanto principio rilevante della tutela dei segni distintivi ed identificativi di una persona.

In assenza di una legge di riforma della disciplina del cognome nonostante diverse iniziative legislative, è stata la Corte Costituzionale a spingere nel senso del rinnovamento. Di recente, infatti, la Corte Costituzionale italiana (con sentenza num. 286 del 2016) si è pronunciata sull’automatica attribuzione del cognome paterno aprendo una breccia in questo caposaldo sociale e ritenendo illegittima la norma “ nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita anche il cognome materno”. L’aspetto rilevante è qui dato, da un lato dal “comune accordo dei genitori” e dall’altro “dall’aggiunta del cognome materno a quello paterno”. Infatti qualora entrambi i genitori vogliano affiancare al patronimico anche il cognome materno, tale richiesta non può essere respinta perché rispetta sia “il principio di uguaglianza morale e giuridica dei coniugi” sia “il diritto all’identità personale del figlio ad essere identificato sin dalla nascita attraverso l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori”. In tal modo la Corte si è allineata con quello che di fatto già avveniva da tempo nella prassi amministrativa sulle richieste di modifica del cognome. Diverse circolari del Ministero dell’interno avevano infatti, già da una precedente sentenza della Corte costituzionale del 2006, cominciato a guardare con favore  – nel senso del loro accoglimento – alle richieste di affiancamento del cognome materno a quello paterno per i figli. Tali richieste, infatti, risultavano meno problematiche delle altre, volte all’attribuzione del solo cognome materno al posto di quello paterno. La ratio sta nel fatto che mentre nelle prime richieste di aggiunta del cognome materno a quello paterno si introduca “un ulteriore elemento identificativo”, nelle altre – volte alla sostituzione del cognome paterno con quello materno – “si giunge all’eliminazione di un segno distintivo” per cui in tal caso occorre maggiore cautela. Tuttavia a favore anche di queste ultime richieste si annoverano le osservazioni del Consiglio di Stato (Parere 17.03.2004 num. 515) che guarda positivamente ad un accoglimento anche di queste ultime, qualora ci sia la volontà concorde di entrambi i coniugi, sulla base della considerazione che “la pubblica amministrazione non può sostituirsi alla concorde volontà dei genitori”. In sintesi la nuova sentenza della Corte costituzionale ha scalfito la regola dell’automatismo del cognome paterno da attribuirsi ai figli, come retaggio di una concezione patriarcale della famiglia e contraria ai principi di eguaglianza sanciti in Costituzione, ma ciò solo a fronte di una diversa volontà di entrambi i genitori – concordi tra loro – nella scelta del doppio cognome (quello materno in aggiunta a quello paterno). La Corte però non ha mancato di precisare che, in realtà di più non può fare considerando che l’unico reale potere è nelle mani del legislativo che è il solo legittimato ad adottare le possibili scelte alternative al patronimico. Nelle more di un intervento legislativo, quindi, il cognome del padre risulta ancora la regola applicabile laddove manchi una concorde volontà derogatoria dei genitori a favore di un doppio cognome.

Regole sulla pubblicità delle succursali in un diverso Stato membro

Di recente è stata pubblicata in Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea una nuova direttiva (Direttiva UE 2017/1132) relativa a diversi aspetti del diritto societario. Come noto, non esiste a livello europeo un unico diritto societario cui gli stati membri debbano conformarsi. Ciascuno stato ha un proprio diritto societario che regola sia le società interne che l’ingresso di società straniere nel proprio territorio nazionale. A livello europeo è ormai da anni che si sta lavorando quantomeno per una coordinazione e conformità dei diversi sistemi di diritto societario nazionale nell’obiettivo di rendere effettiva la libertà di stabilimento delle imprese e delle persone tutelata nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea.

La nuova direttiva, da un lato codifica norme esistenti e dall’altro abroga precedenti direttive che frammentariamente avevano disciplinato i diversi aspetti del diritto societario. Intendiamo qui porre attenzione solo su alcuni degli elementi disciplinati nella Direttiva e che interessano agli operatori commerciali transfrontalieri all’interno del mercato unico, in particolare: le regole sulla pubblicità delle succursali di una società create in un altro stato membro. Tutte le succursali che siano create in un paese dell’Unione ma di derivazione da società soggette alla legislazione di un altro Stato membro sono soggette ad obblighi di pubblicità nei registri delle imprese (interconnessi a livello europeo) al fine non solo di identificarle correttamente ma di offrire una diffusione sicura e attualizzata di informazioni sociali per gli operatori. Pertanto le succursali dispongono in primo luogo di un identificativo unico che consenta di individuarle in maniera univoca all’interno del sistema di interconnessione tra i registri (su tal punto si veda il precedente blog: “Ulteriori passi in avanti nel coordinamento dei Registri delle Imprese”). Nella corrispondenza della succursale con i propri partner commerciali nonché negli ordinativi utilizzati è necessario che siano indicati sia il Registro presso il quale è costituito il fascicolo della succursale sia il corrispondente numero di iscrizione della succursale in tale Registro.

La direttiva inoltre prevede che si rendono accessibili ai terzi tutta una serie di atti e indicazioni relativi alla succursale quali: l’attivitá esercitata, l’indirizzo, la denominazione ed il tipo societario se non corrispondono a quelle della società d’origine, l’individuazione di quei soggetti che siano in grado di rappresentare nei confronti dei terzi ed in giudizio la società e la succursale, l’eventuale cessazione della loro carica ecc. Si prevede, oltre a ciò, l’obbligo di pubblicità anche per i fatti indicativi della crisi della società: una procedura di fallimento, di concordato o altre procedure analoghe o di chiusura della società: una procedura di scioglimento della società, di liquidazione, di chiusura ecc. Visibile dai Registri perché soggetta ad iscrizione obbligatoria sarà anche la chiusura della succursale.

Grazie al sistema di interconnessione dei registri, il Registro della società originaria rende disponibili le informazioni in merito all’apertura e alla chiusura di eventuali procedimenti di liquidazione o insolvenza della stessa e alla cancellazione della società dal registro, se ciò produce effetti giuridici nello Stato membro del Registro della società.

Il registro in cui è iscritta la succursale assicura, attraverso il sistema di interconnessione dei registri, il ricevimento immediato di tali informazioni e ciò permette che laddove una società sia stata sciolta o cancellata dal Registro originario anche le sue succursali siano  cancellate automaticamente (ciò non avviene chiaramente nei casi di solo cambiamento della ragione sociale o di fusioni/scissioni o trasferimenti di sede sociale).

Accanto a tali informazioni da rendere pubbliche necessariamente, lo Stato membro dell’Unione in cui è creata la succursale potrà anche richiedere la pubblicità di altri documenti o atti, quali per esempio la firma delle persone che abbiano rappresentanza della succursale o della società d’origine; un attestato del Registro delle Imprese che dimostri l’esistenza della società d’origine, l’atto costitutivo o gli statuti, se atti separati, e finanche l’indicazione delle garanzie sui beni della società d’origine relativamente all’aspetto della loro validitá.

Anche i documenti contabili della società redatti, controllati e pubblicati ai sensi delle leggi nazionali degli Stati membri della società d’origine devono essere pubblicati.  Di tali documenti, così come degli atti costituti o statuti di cui si richieda pubblicità, lo Stato di sede della succursale  può chiedere deposito e traduzione in un’altra lingua ufficiale dell’Unione e che tale traduzione sia autenticata, proprio al fine di garantire un’effettiva accessibilità dei terzi ai documenti.

Per quanto riguarda gli effetti di tale pubblicità nei confronti di terzi, la direttiva precisa che, qualora la pubblicità effettuata presso il Registro della succursale divergesse dalla pubblicità fatta presso la società d’origine, per tutte le operazioni effettuate con la succursale prevarrà la pubblicità del luogo della sede della succursale.

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Indicazioni veritiere su prodotti alimentari comunque proibite se ambigue per il consumatore

Segnaliamo una recente sentenza della Corte di giustizia europea (causa Dextro Energy GmbH & Co. KG/ Commissione, Sentenza 08.06.2017 – C-296/16 P) nei confronti di una società tedesca in merito ad indicazioni relative alla salute su prodotti alimentari.

La Dextro Energy produce prodotti alimentari a base prevalente di glucosio sia per il mercato tedesco che per il mercato europeo. Questa richiedeva l’autorizzazione ai sensi del Reg. CE n. 1924/2006 alla EFSA (European Food Safety Authority) ad usare diciture sui prodotti venduti quali “ il glucosio è metabolizzato nell’ambito del normale metabolismo energetico corporeo” oppure “il glucosio sostiene l’attività fisica” o “il glucosio contribuisce alla normale funzione muscolare”, destinati evidentemente ad un pubblico di consumatori sia generale che mirato, donne e uomini attivi sportivamente e allenati. Tale autorizzazione veniva concessa da parte dell’autorità richiesta ritenendo la stessa che corrispondesse a vero il nesso causa effetto tra l’assunzione di glucosio ed il metabolismo energetico corporeo. La Commissione, invece, egualmente richiesta del rilascio dell’autorizzazione ex Reg. UE 2015/8 sulle indicazioni sulla salute apposte ai prodotti alimentari rifiutava la stessa argomentando che le indicazioni richieste dalla Dextro Energy “comunque avrebbero trasmesso un messaggio contraddittorio ed ambiguo ai consumatori”. Se è vero infatti che esistano argomenti scientifici che colleghino il consumo di glucosio al funzionamento del metabolismo corporeo è altresì vero che gli Stati dell’Unione si sono allineati nel senso di evitare l’incoraggiamento al consumo di zucchero per i noti effetti negativi sulla salute umana e si sono pertanto orientati – nell’ambito delle politiche di gestione dei rischi – nel senso di ritenere più appropriata la riduzione del consumo di zucchero per la salute. In quest’ottica il messaggio riassunto dalle indicazioni sui prodotti Dextro Energy sarebbero ambigue per il consumatore. La società tedesca ricorreva pertanto al Tribunale europeo (I. istanza) tra gli altri argomenti adducendo anche che tali indicazioni sarebbero state accompagnate da altre diciture sulle condizioni d’uso specifico del prodotto o avvertenze aggiuntive che avrebbero ridotto la portata del messaggio sui consumatori. Il Tribunale europeo di prima istanza in Lussemburgo respingeva tuttavia il ricorso allineandosi sulle posizioni della Commissione. Da qui l’ulteriore ricorso della società tedesca alla Corte di Giustizia europea argomentando che le diciture richieste corrispondessero a principi generalmente e scientificamente riconosciuti e che comunque la correttezza scientifica delle diciture era garantita dal consenso dell’EFSA. Con la sentenza in oggetto anche la Corte di giustizia europea si è allineata alle posizioni della Commissione. Quest’ultima infatti era tenuta a rilasciare l’autorizzazione richiesta non basandosi solo – come l’EFSA – ai rapporti causa effetto citati nelle diciture richieste, ma sulla base di tutta la normativa dell’unione europea in merito e valutando tutti i fattori rilevanti per la decisione (quali le politiche di gestione dei rischi per la salute). In particolare la Corte sostiene che le indicazioni richieste dalla Dextro Energy si limitino ad evidenziare solo gli effetti positivi del glucosio per il metabolismo energetico senza altresì indicare i pericoli legati al consumo di zucchero e pertanto avevano una portata ingannevole per il consumatore e tale da giustificare il mancato rilascio delle autorizzazioni richieste. In sintesi pertanto occorre fare attenzione alle diciture relative alla salute su prodotti alimentari, queste infatti sono ammissibili non solo qualora corrispondano a vero ma anche qualora si inquadrino nelle politiche generali sulla salute in Europa. Proprio in tal senso la Commissione ha autorizzato in passato diciture che si riferissero ad un ridotto consumo di zucchero (per es.: per le gomme da masticare, la dicitura “senza zucchero” o su prodotti alimentari “poveri di zuccheri”) ma mai nel senso opposto diciture relative al valore positivo di un alto contenuto di zuccheri.

Termini per il riesame di un’ingiunzione di pagamento europea (IPE)

Intendiamo segnalare una recente pronuncia della Corte di cassazione italiana (Cass. Civ. Sezioni Unite n. 7075/17) sul procedimento di riesame di una ingiunzione di pagamento europea. Come noto i creditori che intendano recuperare il proprio credito sofferente nei confronti di un partner commerciale straniero, di residenza EU, si possono avvalere – alternativamente e a seconda dei casi – sia degli strumenti nazionali  di recupero del credito (procedimenti monitori nazionali con successivo riconoscimento immediato del titolo) sia degli strumenti comunitari (IPE) ai sensi del Reg. CE n. 1896/2006, con le modifiche di cui al Reg. EU n. 2015/2421 in vigore a partire dal luglio di quest’anno. Quando un debitore riceve un’ingiunzione di pagamento europea ha oltre alla possibilità dell’opposizione ordinaria al provvedimento (Art. 16), anche la possibilità ai sensi dell’Art. 20 del suddetto Regolamento istitutivo di richiederne il riesame in circostanze eccezionali ivi descritte.

Tuttavia, mentre per l’ipotesi dell’opposizione ordinaria il legislatore comunitario ha previsto un termine esplicito di 30gg dal momento in cui l’ingiunzione è stata notificata, per il diverso procedimento di riesame nessun termine specifico viene indicato, ma viene usata unicamente la dizione che il convenuto “agisca tempestivamente”. Ma attenzione l’interpretazione relativa al termine del riesame – osserva correttamente la Corte di Cassazione – deve essere fatta unitariamente e internamente al Regolamento. Per verificare quindi quale termine sia da applicare all’ipotesi del riesame occorre riferirsi in primis all’Art 26 del Regolamento istitutivo che prevede che “tutte le questioni procedurali non trattate specificamente dal presente regolamento sono disciplinate dal diritto nazionale”, vale a dire dalla lex fori in cui il procedimento di riesame viene incardinato. Nell’ipotesi trattata dalla Corte di Cassazione italiana quindi, la legge processuale italiana. Il Regolamento con tale norma ha detto un vero e proprio divieto di far ricorso ad altri ceiteri di interpretazione sistematica, estensiva o analogica. “Il principio che il Regolamento esprime è che in tutte le ipotesi in cui una questione inerente il processo non sia trattata specificamente nel regolamento, cioè espressamente regolata da una norma di esso, la disciplina deve ricercarsi nel diritto nazionale”. A fortiori l’Art. 29 del Regolamento affida agli Stati membri la regolazione del procedimento di riesame, quindi la questione dei termini del riesame, essendo evidentemente questione di rito deve essere risolta applicando la normativa processuale italiana. Lo Stato italiano ha comunicato alla Commissione europea che il giudice italiano competente per le questioni di riesame di un’IPE è lo stesso giudice che ha emesso l’ingiunzione, ai sensi dell’Art. 650 cpc, e che anche il relativo procedimento applicabile al riesame sia quello dell’Art. 650 cpc. Quindi è ai termini previsti da tale articolo che occorre guardare per la proposizione tempestiva di un riesame dell’IPE in Italia, vale a dire ai termini previsti dall’ordinamento italiano per l’opposizione tempestiva al decreto ingiuntivo (richiamo all’Art. 641 cpc) quando non sia iniziata l’esecuzione, ed in quello di cui al terzo comma dell’Art 650 (“fino a 10 gg dal primo atto di esecuzione”) quando l’esecuzione sia già iniziata, qualificandosi tale ultimo termine come il “termine finale” per poter presentare il riesame. Oltre a questo importante chiarimento interpretativo gli Ermellini prendono posizione anche su un’eventuale menomazione del diritto alla difesa per il convenuto in Italia – come paventato dalle tesi difensive della società ricorrente. La Corte, invece, osserva che “l’istituto del riesame è costruito dal legislatore comunitario come un rimedio che ha natura meramente rescindente” e quindi che comporta la nullità dell’IPE “sulla base del solo riconoscimento da parte del giudice dell’esistenza di una situazione che legittimi il riesame”, quindi il contenuto delle difese di chi voglia proporre un riesame è limitato alla sola deduzione della situazione legittimante il riesame ai sensi dell’Art. 20 del Regolamento a differenza invece delle ben più ampie deduzioni difensive cui è tenuto un’opponente ad un decreto ingiuntivo nazionale. A detta della Corte pertanto “Il diritto di difesa non subisce la benchè minima menomazione”.

Gli obblighi di un amministratore di una GmbH tedesca: obbligo di presentazione della richiesta di apertura di una procedura fallimentare

Nella gestione di una società ci si augura sempre di poter presentare bilanci positivi e di garantire un produttivo andamento dell’attività di impresa, tuttavia non di rado si verifica che la società costituita all’estero abbia difficoltà ad inserirsi nel mercato straniero e presenti nei primi anni di gestione valori negativi. In questi casi è dovuta particolare attenzione da parte degli amministratori. Anche qualora questi siano cittadini italiani e magari poco conoscano la lingua tedesca ciò non esime loro dall’osservanza delle norme di legge che governano la vita sociale ed in particolare dall’ottemperanza degli obblighi cui gli amministratori sono tenuti in caso di stato di crisi della società.

Gli amministratori di una GmbH sono tenuti regolarmente a controllare lo stato economico della società e a non sottovalutare gli indizi di crisi della stessa, solo in tal modo è possibile adottare le misure di ristrutturazione più adeguate che permettano all’azienda di risanarsi e tornare in attivo, ma in alcuni casi può essere tutto troppo tardi e lo stato di crisi essere irreversibile sì da rendere necessaria la presentazione di una domanda di apertura di una procedura di insolvenza sul patrimonio della società. Accanto a tutta una serie di possibili condotte che gli amministratori debbano seguire in caso di crisi della società (vedi blog di riferimento – Risanamento delle imprese in crisi) intendiamo qui fare riferimento in particolare all’obbligo di presentazione della domanda di fallimento ed alle conseguenze che gravino sugli amministratori in caso di ritardo e di inattività. Intanto occorre che l’amministratore verifichi che la società versi in uno stato di insolvenza, ciò nel diritto tedesco è previsto nel caso in cui la società sia zahlungsunfähig, cioè non è in grado di adempiere alle obbligazioni scadute (indice di ciò è solitamente la cessazione dei pagamenti), ma anche quando esista un’insolvenza incombente (=drohende Zahlungsunfähigkeit), vale a dire quando è prevedibile che la società debitrice non sarà in grado di adempiere le obbligazioni cui si è vincolata alla loro scadenza. In ultimo la società si considera insolvente anche qualora sussista uno sbilancio patrimoniale o eccessivo indebitamento (=Überschuldung). In particolare ciò si verifica quando il patrimonio della società non è più in grado di coprire le obbligazioni esistenti. Tuttavia tale valutazione va effettuata anche prendendo in considerazione le possibili misure di ristrutturazione o le eventuali iniezioni di capitale che possano garantire la continuazione dell’attività di impresa. In alcuni casi, infatti, grazie a tali interventi è ragionevole prevedere e prognosticare che la società possa superare l’empasse in cui si trova e pertanto non sia necessariamente da considerare insolvente. In ogni caso è assolutamente da consigliare all’amministratore di una società che dia segni di decozione di agire rapidamente e di valutare le possibilità di ristabilire la liquidità dell’impresa attraverso un eventuale piano su misura. Nel caso in cui non ci sia un piano b l’amministratore è tenuto per legge (§ 64 InsO) in caso di insolvenza a presentare, immediatamente ed al più tardi entro tre settimane dal momento in cui ne ha preso conoscenza, la richiesta di apertura di una procedura di insolvenza presso il Tribunale fallimentare competente, in base alla sede legale della società. Tale termine perentorio potrà rimanere inosservato solo nel caso in cui nel frangente l’amministratore si adoperi per la realizzazione di tentativi di risanamento dell’azienda che permettano a questa di superare lo stato di insolvenza. Attenzione: il ritardo nella presentazione di una tale domanda conduce ad una responsabilità degli amministratori non solo nei confronti della società ma anche nei confronti dei creditori sociali (responsabilità sul piano civile). Tale omissione (=Insolvenzverschleppung) inoltre ha gravi conseguenze personali per l’amministratore perché integra anche gli estremi di una fattispecie penale che comporta una sanzione pecuniaria o la pena della reclusione fino a tre anni, purchè si dimostri che l’amministratore ha agito intenzionalmente o quanto meno per colpa grave. Si ha una tale colpa anche solo quando l’amministratore – di fronte a chiari indizi della crisi dell’impresa – non abbia posto in essere una valutazione consapevole e fondata della possibilità di prosecuzione dell’impresa.

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La clausola di scelta del foro e la litispendenza internazionale

Di regola nella redazione di contratti internazionali si vuole inserire una clausola di scelta del foro, affinchè le parti contrattuali possano determinare in anticipo quale giudice sarà competente a decidere eventuali future controversie. Tale clausola viene prevista non solo nei casi di vendita internazionale di beni ma anche nei casi in cui si preveda l’esercizio di una prestazione di servizi in uno stato straniero (tipico è il caso del contratto di agenzia). È opportuno – di solito – consigliare agli operatori economici l’introduzione di una simile clausola nei rapporti con un partner straniero europeo per garantire prevedibilità e sicurezza ai rapporti giuridici e per evitare che operino – in caso di controversia – le norme generali di attribuzione del foro (e della legge applicabile) previste dalla specifica normativa europea. Per maggiore sicurezza il foro individuato come competente viene qualificato come esclusivo, automaticamente arginando, per volontà tra le parti, la possibilità di individuare un diverso giudice competente in base ad un qualunque altro criterio di collegamento.

Ciascun contraente vorrebbe applicare al rapporto giuridico con il proprio partner straniero, sia la propria legge – quella a lui ben nota – sia attribuire la competenza in caso di controversie ai propri giudici nazionali. Tuttavia siccome per poter essere efficace la clausola del foro dovrà essere validamente stipulata tra le parti spesso si verificava che la controparte contrattuale straniera, che magari aveva accettato la clausola in ragione della diversa forza contrattuale delle parti, decideva lo stesso di agire presso un altro giudice (quello proprio) omettendo di menzionare l’esistenza di una clausola di scelta del foro. In questo modo la parte contrattuale che per prima ricorreva al giudice (criterio temporale) intanto bloccava la causa presso il giudice adito. Infatti in passato in base alla normativa europea (Art. 27 Reg. CE 44/2001) si prevedeva che: “Qualora davanti a giudici di Stati membri differenti e tra le stesse parti siano state proposte domande aventi il medesimo oggetto ed il medesimo titolo, il giudice successivamente adito sospende di ufficio il procedimento finchè sia stata accertata la competenza del giudice adito in precedenza”. La logica perseguita dalla normativa europea e ben spiegata nei “considerando” del regolamento menzionato era quella di garantire “il funzionamento armonioso della giustizia” in modo che “si riduca al minimo la possibilità di pendenza di procedimenti paralleli e che vengano emesse, in due Stati membri, decisioni tra loro incompatibili”. Ora siccome nel corso del tempo si è dato luogo ad abusi di tale norma -proprio in particolare per paesi quali l’Italia, dove notoriamente il corso della giustizia civile è estremamente lento per cui parti contrattuale italiane adivano in primis i propri giudici “insabbiando” per così dire il procedimento – il legislatore comunitario è corso ai ripari. Ai sensi pertanto del nuovo Reg. Eu 1215/2012 ormai in vigore, si è introdotta una deroga a tale regola di prevenzione temporale, richiamando l’art. 31, paragrafo 2 dello stesso regolamento. In particolare si prevede ora che qualora l’autorità giurisdizionale di uno Stato membro al quale una clausola di competenza esclusiva del foro attribuisca i poteri di dirimere la controversia sia adita successivamente, questa non deve rimettere la causa all’autorità giurisdizionale precedente, ma sarà quest’ultima a dover sospendere il procedimento, operando così una deroga alla priorità temporale. Attenzione, tuttavia, che tale deroga cessa di essere operante in alcuni casi: 1) chiaramente quando ad essere adita per prima sia proprio l’autorità giurisdizionale cui è attribuita giurisdizione esclusiva da valida clausola o 2) quando le parti contrattuali hanno stipulato clausole di scelta esclusiva del foro confliggenti tra loro e 3) quando il giudice indicato della clausola di scelta esclusiva del foro accerti che tale clausola sia invalida o inefficace; in tutti tali casi ritornerà ad applicarsi il principio della prevenzione temporale. Sempre di più, quindi, assume rilevanza nella redazione di contratti internazionali prestare attenzione alle singole clausole scelte tra le parti.

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La scelta di uno Stato membro dell’Unione europea di imporre dei prezzi uniformi per la vendita di farmaci soggetti a prescrizione è stata dichiarata contraria al diritto europeo

Segnaliamo un’interessante sentenza della Corte di giustizia europea (19.10.2016, C-148/15) che è andata a colpire alcune disposizioni della normativa tedesca relativa alla vendita di medicinali soggetti a prescrizione medica [Arzneimittelgesetz (=legge sui medicinali) e l’Arzneimittelpreisverordnung (=regolamento sui prezzi dei medicinali) ] dichiarandole contrarie al principio di libera circolazione delle merci all’interno dell’Unione, in quanto ritenute misure equivalenti a quelle restrittive della quantità all’importazione di merci, nella misura in cui impongano prezzi uniformi nella vendita di detti farmaci.

La causa sorgeva a seguito di una convenzione stipulata tra la Deutsche Parkinson Vereinigung eV, organizzazione di mutua assistenza con scopo di miglioramento delle condizioni dei pazienti affetti dal morbo di Parkinson e delle loro famiglie, e una farmacia olandese per corrispondenza. La DPV dava la possibilità ai propri membri di avvalersi di alcuni bonus agevolativi per l’acquisto di medicinali per la terapia del morbo di Parkinson soggetti a prescrizione medica, se acquistati presso tale farmacia straniera. L’associazione tedesca per la lotta contro la concorrenza sleale (= Zentrale zur Bekämpfung unlauteren Wettbewerbs eV), impugnava tale pratica in quanto lesiva della normativa tedesca che stabilisce la fissazione (da parte del Ministero federale per l’economia e tecnologia tedesca) di prezzi uniformi per le farmacie nella vendita di medicinali soggetti a prescrizione medica, in particolare nella misura in cui tale fissazione dei prezzi riguardasse anche la vendita per corrispondenza –  da parte di farmacie situate all’estero – di medicinali che venissero recapitati ad un consumatore finale in Germania. La questione veniva passata dai giudici tedeschi di seconda istanza alla Corte europea chiedendo in particolare un vaglio di conformità di tale normativa interna con il trattato europeo ed in particolare con il principio di libera circolazione delle merci all’interno dell’EU. La Corte europea si è pronunciata ritenendo che l’imposizione di prezzi uniformi per la vendita di farmaci stabilita dalla legge tedesca è in violazione del fondamentale principio di libera circolazione delle merci in quanto integra gli estremi di una pratica con effetto equivalente a quello di restrizioni quantitative alle importazioni di merci tra gli Stati membri. In altri termini, il ragionamento seguito dalla Corte è stato quello di vedere danneggiate dalla normativa tedesca, nel caso concreto una farmacia olandese, ma in generale ogni farmacia di un paese dell’Unione diverso dalla Germania che voglia vendere online prodotti farmaceutici soggetti a prescrizione medica per utenti tedeschi. Infatti essa sostiene che “dal momento che la vendita per corrispondenza costituisce un mezzo più importante – se non addirittura l’unico mezzo (…) per le farmacie stabilite in un altro stato membro rispetto alle farmacie stabilite in Germania per accedere direttamente a tale mercato, la normativa nazionale (ndr: tedesca) non incide in pari misura sulla vendita dei medicinali nazionali e su quella dei medicinali provenienti da altri Stati membri”. Alla luce di tali considerazioni ”l’imposizione di prezzi di vendita uniformi, prevista dalla normativa tedesca colpisce maggiormente le farmacie stabilite in uno stato membro diverso dalla Germania rispetto a quelle che hanno la propria sede nel territorio tedesco, e ciò potrebbe ostacolare maggiormente l’accesso al mercato dei prodotti provenienti da altri Stati membri rispetto a quello dei prodotti nazionali”. Quindi tale normativa viene considerata come una misura “equivalente” ad una restrizione quantitativa all’importazione. La Corte europea contesta inoltre anche le argomentazioni del governo tedesco che identificavano la ratio del sistema di uniformità dei prezzi nell’obiettivo della tutela della salute e della vita delle persone e nell’esigenza di tutelare l’eventuale sparizione delle farmacie tradizionali nelle zone rurali, sia perché dalle tesi difensive esposte “non si riscontravano elementi atti a dimostrare in che modo il fatto di imporre prezzi uniformi per siffatti medicinali consenta di garantire una migliore distribuzione della farmacie tradizionali in Germania” sia perchè non veniva offerta una prova del pericolo reale per la salute umana che sarebbe costituito dalla possibilità per il consumatore di procurarsi a prezzi inferiori medicinali soggetti a prescrizione. Al contrario, una concorrenza sui prezzi potrebbe essere più vantaggiosa proprio per il paziente consumatore permettendogli di avere accesso a medicinali, venduti a prezzi più favorevoli rispetto a quelli praticati nel proprio stato, senza che sia leso il bene della salute, considerando che nei paesi dell’Unione esistono norme restrittive circa l’esercizio dell’attività farmaceutica con lo scopo di garantire comunque “un approvvigionamento sicuro e di qualità anche per medicinali soggetti a prescrizione medica”.

Il Tribunale unificato dei brevetti: una giurisdizione particolare

La materia brevettuale è oggetto di una legislazione complessa a livello europeo, caratterizzata da una pluralità di fonti che si intrisecano tra di loro con ambiti di applicazione diversi che porta gli operatori del diritto ad un estremo sforzo interpretativo che spesso rimane poco chiaro all’operatore economico.

Allo scopo di fornire una generale informazione si accenna che esiste un vero e proprio pacchetto di leggi che riguardano la materia brevettuale, tra cui i Regolamenti EU n. 1257/2012 sul brevetto ad effetto unitario e il Reg. 1260/2012 sul regime linguistico del brevetto; entrambi adottati in cooperazione rafforzata tra più paesi dell’Unione (con esclusione della Spagna e della Croazia) nonché l’accordo internazionale di Bruxelles del 19.01.2013 (non firmato da Spagna, Croazia e Polonia – entrato in vigore dal 01.01.2014) che ha istituito un organo giurisdizionale ad hoc per la materia: il Tribunale unificato dei brevetti. Tuttavia la disciplina che regola le procedure di funzionamento del Tribunale è ancora, per così dire, in formazione, infatti essa si trova nelle cd. Rules of Procedure più volte modificate e non ancora in assetto definitivo. L’unico Regolamento già entrato in vigore è il Regolamento num. 524/2014, che va ad incidere modificandolo un altro importante Regolamento europeo (n. 1257/2012 cd. Bruxelles I bis) concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale. Detto Regolamento del 2014 specifica la giurisdizione del Tribunale unico dei brevetti precisando che esso deve intendersi come “autorità giurisdizionale di uno stato membro” anche se si tratta di un giudice non nazionale ma comune a più stati membri dell’Unione. Vale a dire che il Tribunale unificato avrà giurisdizione tutte le volte in cui il giudice nazionale sarebbe stato competente per materia in base ai regolamenti europei sulla giurisdizione internazionale. Tale Tribunale quindi, è un’autorità giurisdizionale particolare dotata di una giurisdizione molto ampia determinata in ragione della materia brevettuale. In altri termini è sufficiente che una controversia in materia brevettuale abbia punti di contatto con uno dei paesi che hanno sottoscritto l’accordo istitutivo per poter determinare la competenza del Tribunale unificato a decidere sulla questione. A tal proposito rileva l’Art. 32 dell’accordo che precisa le materie in cui il Tribunale unificato ha competenza esclusiva, tra cui a titolo di esempio: le azioni per far valere violazioni o anche solo minaccia di violazione di brevetti, le azioni di accertamento relative all’inesistenza di violazione di brevetti, le azioni volte ad ottenere misure cautelari ed ingiunzioni in merito a brevetti, le azioni per il risarcimento danni e per gli indennizzi derivanti dalla protezione provvisoria accordata ad una domanda di brevetto europeo pubblicata, le azioni di revoca di brevetti ecc. Ai tribunali nazionali degli stati membri rimane la competenza (a carattere residuale) a conoscere delle azioni relative ai brevetti e ai certificati protettivi complementari che non rientrano nella competenza esclusiva del tribunale unificato. Quindi una competenza esclusiva e predominante rispetto ai tribunali nazionali, laddove però risulti il carattere di internazionalità della fattispecie come individuati nell’Art. 31 TUB e di richiamo nel regolamento Bruxelles I bis. Il Tribunale unificato avrà quindi un’ampia giurisdizione perché potrà essere invocato non solo quando convenuto sia un soggetto domiciliato in uno degli Stati dell’Unione, ma anche quando convenuto sia un soggetto domiciliato nell’Unione ma in uno stato non firmatario dell’accordo istitutivo (es. Spagna), laddove ricorrano gli altri criteri di collegamento identificati dal Regolamento Bruxelles I bis idonei a fondare la giurisdizione (es. foro contrattuale, foro dell’illecito ecc) e vincolanti anche gli stati non firmatari. Tale giurisdizione è talmente ampia che si estende anche al convenuto che non sia domiciliato in uno stato dell’Unione purchè sussistano criteri di collegamento sufficienti con uno degli stati aderenti all’accordo istitutivo.

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Le vendite internazionali e la competenza dei giudici

Segnaliamo una nuova sentenza della Corte di Cassazione italiana (num. 11381 del 2016) su un’importante tema di particolare interesse per le aziende italiane che vendano i propri prodotti all’estero, in particolare nei paesi dell’Unione europea: come determinare la competenza dei giudici in caso di violazioni del contratto di vendita; presso quale autorità si possono fare valere le proprie pretese ed in quali circostanze.

Nel caso piuttosto diffuso nella pratica commerciale di vendita di prodotti all’estero senza uno specifico accordo contrattuale tra le parti, possono sorgere problemi non di poco conto quando l’unica disciplina del rapporto vada dedotta dagli scritti che le parti si sono scambiati (ordine della merce, conferma d’ordine) o dell’eventuale frammentaria e non giuridica corrispondenza tra le stesse. In particolare i nodi arrivano al pettine quando la propria controparte non adempie la sua prestazione (nel caso classico) di pagamento della merce acquistata e quindi, per far valere il proprio diritto, il venditore intende rivolgersi al giudice. Nei casi di vendita internazionale, infatti, si sovrappongono – in assenza di specifica disciplina contrattuale tra le parti – una serie di norme legislative di diverso grado ed ambito operativo, quali per esempio la Convenzione di Vienna del 1980 sulla vendita internazionale di beni mobili e la normativa regolamentare europea (Reg. Ce 44/2001 sostituito dal Regolamento UE 1215/2012 in vigore dal gennaio 2015). Proprio nella sentenza de qua la Corte di Cassazione ha fornito un fondamentale strumento di interpretazione per gli operatori del diritto e di riflesso per gli operatori commerciali, in termine di sovrapposizione di fonti, specificando la prevalenza della normativa comunitaria in ragione del fatto che questa sia volta a disciplinare il conflitto di norme degli ordinamenti nazionali (in altri termini si tratta di una norma di conflitto, internazionalprivatistica) mentre la Convenzione di Vienna “ introduce una disciplina uniforme, una normativa a carattere sostanziale direttamente applicabile ai contratti che rientrano nel suo campo applicativo” – per dirla con la Corte. Pertanto nella questione di cui la sentenza si occupa: l’identificazione del giudice competente in caso di controversie, qualora le parti non abbiano stipulato un’apposita clausola di scelta del foro; il criterio per individuare il giudice competente è da individuarsi nei regolamenti europei. Questi prevedono la possibilità di convenire una persona domiciliata in uno stato membro  o una società con sede in uno stato membro  in un altro stato diverso “se ivi è situato il luogo in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al contratto”. Il criterio del luogo di consegna dei beni viene individuato come quello più consono nel contratto di compravendita perché “l’obiettivo fondamentale del contratto di compravendita di beni è il trasferimento degli stessi dal venditore all’acquirente, operazione che si conclude soltanto quando detti beni giungono alla loro destinazione finale”. Inoltre tale criterio è solitamente ben noto,  prevedibile e conoscibile tra le parti e quindi soddisfa l’esigenza primaria della normativa europea di semplificazione, uniformità e prevedibilità dei criteri. Alla luce di queste considerazioni va rilevato che occorre un’estrema cautela nel momento in cui si decide di esportare le proprie merci all’estero ed in particolare occorre una regolamentazione chiara ed inequivoca tra le parti, che sia in grado di tenere anche in fase giudiziale a titolo probatorio come accordo bilaterale su cui le parti hanno raggiunto un consenso.

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Il regime patrimoniale delle coppie internazionali

Segnaliamo che di recente sono stati emessi due Regolamenti europei in materia di regime patrimoniale dei coniugi (Reg. CE 2016/1103 relativo alle coppie sposate e il Reg. CE 2016/1104 relativamente alle coppie registrate, rimangono escluse le coppie di fatto). Tali regolamenti sono il punto di arrivo di uno sforzo di cooperazione tra gli stati europei per avvicinare le diversità dei regimi patrimoniali esistenti nei diversi stati. Pur non avendo raggiunto una disciplina comune e uniforme, alcuni (18) Stati dell’Unione sono riusciti a darsi delle norme di conflitto comuni in grado di aiutare e semplificare la gestione dei regimi patrimoniali tra coppie miste. Tra detti stati in cooperazione rafforzata si annoverano anche l’Italia e la Germania.

Sono stati centrati alcuni obiettivi importanti, quali garantire ai coniugi la conoscenza ex ante della legge applicabile al loro regime patrimoniale nonché lasciare a questi la scelta della legge applicabile ai loro rapporti patrimoniali purché questa presenti uno stretto collegamento con gli stessi. Proprio tenendo conto della crescente mobilità delle coppie durante la vita matrimoniale si è ritenuto opportuno dare ai coniugi la possibilità di scegliere la legge applicabile al loro regime patrimoniale bloccandola nel tempo indipendentemente da tali spostamenti e o dal luogo di ubicazione dei beni. Sarà possibile operare tale scelta in qualsiasi momento: prima del matrimonio, all’atto della conclusione del matrimonio o nel corso del matrimonio. In mancanza di scelta da parte dei coniugi opereranno dei criteri di collegamento, previsti dai regolamenti come alternativi e comunque tutti strettamente legati ai coniugi stessi, Come già avevamo visto per il regolamento europeo sulle successioni internazionali (Reg. 650/2012), il criterio principe per ancorare la legge applicabile sarà anche qui quello della residenza. In primis la residenza abituale comune dopo la conclusione del matrimonio, in mancanza di una residenza comune si guarderà alla cittadinanza comune dei coniugi valutata al momento di conclusione del matrimonio o ancora si applicherà la legge dello stato con cui i coniugi hanno il collegamento più stretto, valutato al momento di conclusione del matrimonio e tenendo conto di tutte le circostanze. Nel regolamento 1104 per le unioni registrate si prevede come legge applicabile – qualora non sia stata scelta dalle parti – la legge del luogo di costituzione dell’unione. I presenti regolamenti consentono alle parti, in determinate circostanze, di concludere anche un accordo relativo all’elezione del foro a favore delle autorità giurisdizionali dello Stato membro della legge applicabile o dell’autorità giurisdizionale dello stato membro di celebrazione del matrimonio. Anche qui, in assenza di elezione del foro, i regolamenti prevedono criteri alternativi per ancorare la giurisdizione, dando ruolo preminente al criterio della residenza abituale dei coniugi (per le unioni registrate si aggiunge la giurisdizione dello stato in cui si è costituita l’unione). Un’importante disposizione comune ad entrambi i regolamenti de qua è quella secondo cui: “se un’autorità giurisdizionale di uno Stato membro è adita in merito alla successione di un coniuge ai sensi del regolamento (UE) n. 650/2012, le autorità giurisdizionali di tale Stato sono competenti a decidere sulle questioni inerenti al regime patrimoniale tra coniugi correlate alla causa di successione in questione, a condizione che vi sia un accordo tra le parti. La ratio della norma è quella di favorire una buona amministrazione della giustizia e  concentrare la competenza giurisdizionale tra giudice della domanda principale e delle domande correlate. Proprio per questo particolare attenzione va riservata sulla possibilità di operare una scelta di legge e un’elezione di foro tale da controllare anche eventuali possibili distorsioni in cause future.

Lo studio A & R Avvocati Rechtsanwälte Vi affianca nell’operare tale scelta in modo sicuro e secondo le modalità adeguate anche in un’ottica di pianificazione delle Vostre sostanze economiche per il futuro. I due regolamenti entreranno in vigore dal 29.01.2019 negli stati europei che hanno partecipato alla cooperazione rafforzata e riguarderanno solo i procedimenti iniziati in quella data o successivamente. Le norme relative alla legge applicabile si applicheranno ai coniugi che hanno contratto matrimonio o che hanno scelto la legge applicabile al loro regime patrimoniale dopo la suddetta data.